martedì 16 marzo 2010

L'urlo e il furore

Sullo sfondo di una società in decadenza, quella dell’immaginaria Contea dello Yoknapatawpha, all’inizio del novecento, William Faulkner dipinge la storia di una famiglia del profondo sud degli Stati Uniti d’America. Decadenza non solo materiale, ma anche morale, dell’aristocratica casata dei Compson.
È un ritratto in cui la cronologia viene smembrata a favore di un racconto narrato a più voci, che si fanno eco tra loro, ma che trovano un’armonia solo alla fine del romanzo.
La prima voce narrante è affidata al flusso di coscienza di Benji, il fratello idiota da cui l’autore prese ispirazione per il titolo del romanzo, isolato dal resto del mondo dalla sua malattia, che gli permette di raccontare gli eventi senza la benché minima cognizione del tempo, richiamando ostinatamente e senza consapevolezza alcuna il passato. La seconda è di Quentin, il fratello intelligente, quello, l’unico, che ha la possibilità di studiare, anche se la famiglia è ormai sul lastrico ed è costretta, per trovare i soldi, a vendere il pascolo (quello che, diventando campo da golf, sarà l’ossessione di Benji). L’ultimo dei fratelli narranti è Jason, miserabile e gretto, vile e malvagio. Infine, il racconto si conclude, “come una tragedia greca, con il coro della serva nera Dilsey”.
La narrazione viene affidata, perciò, ai fratelli dell’unica, vera e silenziosa protagonista del romanzo: Caddy. Ognuno di loro è, a suo modo, ossessionato dalla figura della perduta sorella: perduta per Benji, perché scappata di casa; perduta per Quentin, che non potrà mai averla; e perduta per Jason, come può esserlo solo una ragazza dalla dubbia morale. Caddy, figura materna e affettuosa che ha lo stesso profumo degli alberi per Benji, “vergine/puttana” per Quentin che la ama di un amore incestuoso che lo porterà alla morte, dissoluta per Jason che non le permetterà nemmeno di avvicinarsi a sua figlia.
E poi c’è l’urlo e il furore. L’urlo di Benji, un urlo che è tale quando sente il nome di Caddy, ma che è anche l’urlo interiore di chi soffre senza poterlo esternare. E il furore, che sfocia nella tragica (tentata) violenza di cui è fautore. L’urlo incestuoso di Quentin, che si risolve nel furore del suicidio. L’urlo del risentimento di Jason nei confronti della famiglia, che lo ha costretto, suo malgrado, a portarne sulle spalle il fardello, che culmina, alla fine del romanzo, nel furore pazzo dell’inseguimento della nipote. Ma c’è anche il tacito urlo e il pacato furore di Dilsey, che osserva dignitosamente il disfacimento dei Compson (e della società) attraverso il “drammatico evolversi delle loro vicende” familiari. Dilsey, a cui è affidato il compito di lavare via l’empietà attraverso una sorta di catarsi.
L’urlo e il furore è il racconto della colpa e dell’espiazione. L’immoralità di Caddy verrà pagata con l’impossibilità di vedere sua figlia. Quella di Quentin, dell’amore per la sorella, col suicidio. Quella di Jason, la “miseria intellettuale e affettiva”, col furto del denaro così gelosamente custodito. E infine la colpa di Benji, ovvero la sua malattia. Sì, la colpa, perché nella famiglia Compson non è possibile neanche essere diversi. Colpa che verrà pagata con la sua eterna ossessione.
Ma L’urlo e il furore è anche un romanzo fatto di contrasti, in cui la nobiltà è di chi non la possiede, in cui l’integrità morale è un valore che non esiste e in cui è la decadenza la sola caratteristica comune ai personaggi.

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