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martedì 29 novembre 2016

A Bob, e cala da ’ssa cerasa



Arrivo tardi – come Trenitalia (ma l’importante è partecipare) – sulla dibattuta questione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan.
Si è tanto detto sulla possibilità della canzone come declinazione del più grande concetto di letteratura e non sarò certo io la baciapile di turno pronta a negare la dignità delle svariate forme espressive della parola.
L’anamnesi della letteratura parla chiaro, e ci dice che siamo partiti dall’ode per arrivare al romanzo odierno, compreso il non-fiction, come piace tanto dire agli americani, passando per il componimento dove il confine tra prosa e poesia diventava labile.
Personalmente, poi, considero alla stregua del romanzo anche il fumetto – un esempio su tutti: Watchmen. (Diverso invece il caso del film che procede per immagini, forma predominante del narrato e non parallela alle parole, come il fumetto.)
Ma più di tutto questo, c’è un sillogismo aristotelico inoppugnabile per cui canzone = poesia, poesia = letteratura, da cui il corollario canzone = letteratura.
Dunque tutto si riduce non al mezzo di declinazione della parola, ma, più che altro, a ciò che si fa con essa. Si può anche parlare della danza di accoppiamento dell’uccello del paradiso. O di una cipolla da regalare per San Valentino (eh sì, guarda tu che te crea Carol Ann Duffy in Valentine).
Piuttosto, quello che mi preme sottolineare è che la canzone gode – ahimè – di un supporto mediatico che la letteratura in forma scritta non vedrà mai. (Per capirci, se Dylan qualcuna che si toglierebbe il reggiseno strappandosi i capelli ancora la trova, confido nel fatto che Philiph Roth non riceverebbe manco un selfie porno da una fan affetta da disturbo della personalità.)
Perché, diciamocela tutta, la massa è avvezza all’arte, sì, ma se è un po’ più prosaica di “Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta” è meglio (poi quel “Pelide” richiede uno sforzo di conoscenza della mitologia greca, un sottofondo non detto, che poi tocca studiare).
Perciò, mi chiedo, per quale recondito motivo insignire del Nobel un cantautore sostenuto da apparati mainstream molto più forti dei canali attraverso i quali si muovono il romanzo, la poesia, il fumetto e compagnia bella? (Certo, poi meglio Dylan che Murakami: ma non diciamo sciocchezze, per favore.)
E, ancora, perché non buttare al secchio la regola secondo cui non si può scegliere un letterato morto? Perché non gli si possono consegnare fisicamente quei novecentomila euro e rotti?! (A questo proposito avrei qualcosina da dire ai tizi dell’accademia svedese a proposito del merito di Wallace, ma pure –per un po’ di sano sciovinismo che non fa mai male – sull’Umberto Eco nazionale, senza poi nemmeno nominare lo straordinario Gadda perché capisco che il mondo non è ancora pronto per la sua “sovrana coscienza dell’impossibilità di dire: Io”.)
Insomma, qualcun altro bravino a cui dare il premio ce l’avevamo, vedi il già citato Philiph Roth o la por’anima de Don DeLillo, che forse la sera della premiazione avrebbero pure rinunciato al campionato di rutto libero come invece Bob sembra non aver la più pallida intenzione di fare.

lunedì 3 ottobre 2016

Kafka sulla spiaggia

Seguirà irriverente stroncatura ad mio completo libitum. Parole forti, eh, preparatevi.

Dopo la coraggiosa (e tediosa, per restare in rima baciata) lettura dei globalmente osannati quanto immeritatamente celebrati Norwegian Wood e L’uccello che girava le viti del mondo, posso dirlo: Haruki Murakami è la più grande bufala della letteratura postmoderna, e Kafka sulla spiaggia ne rappresenta l’emblema.
Il romanzo è ridondante, fitto di discorsi e fatti nonsense, oltre che di personaggi piatti e/o sbiaditi. Come il protagonista, vittima di un destino edipico (idea peraltro vecchia come il cucco – gli psicologi freudiani ancora ce campano sopra) che si suppone debba essere aleatorio ma in cui lui ricade ingiustificatamente, dando il la a una spiegazione forzata sull’incesto materno che glissa invece su quello con la sorella sedicente. Ah, manco a dirlo, si indulge – anche in questo caso ingiustificatamente – in un sesso amorale e ipertrofico.
Se questo non bastasse, abbiamo, signora mia, un’abbacinante descrizione della morte di un mostro à la Blob-il-fluido-che-uccide a 3.99 ché manco su Topolino.
Inoltre, Murakami sceglie di ostentare la sua padronanza della cultura occidentale (pagine e pagine di lezioncina sulla vita di Beethoven, di brani musicali che appartengono alla nostra tradizione, che dunque già conosciamo) piuttosto che celebrare quella della sua origine, che forse avrebbe avuto più appeal su un pubblico come il nostro (guarda tu Yasunari Kawabata, che personalmente non amo, ma ha preso il Nobel per la letteratura, proprio coglione non sarà).
Insomma, Kafka sulla spiaggia è l’ennesimo romanzo di formazione (quindi: che palle!), che si discosta un poco dai suoi predecessori poiché ha una sovrastruttura che unisce (ma secondo me sarebbe più corretto dire rabbercia) figure (gatto, pietra) e funzioni archetipiche (foresta), simbolismo e miti occidentali, in un viluppo in cui onestamente mancano solo i liocorni (o le anatre di Holden).
Una scrittura desolante, una vuotezza formale intollerabile per uno scrittore di cotanta (avvilente) popolarità, una sottomedietà stilistica di cui i dialoghi, insinceri e inattendibili, rappresentano l’apoteosi – vedi quelli con il Ragazzo chiamato Corvo, il quale già nel nome riassume la cacofonia di cui farà parte.
L’insignificanza che pretende di essere prosa.
Ma davero davero?

A proposito: Haruki Murakami, non Murakami Haruki, ché noi siamo italiani, e ’sto carabinierescamente prima-cognome-poi-nome No, No, grazie.

martedì 9 agosto 2016

American Psycho




«Chiunque giudichi Foster Wallace un genio letterario dovrebbe essere incluso nel Pantheon degli imbecilli». Questo scrisse Bret Easton Ellis del Più Grande Scrittore Di Tutti I Tempi*.
Sapevo di questa infelice uscita, ma l’ho ignorata fino a quando, punta sul vivo, ho deciso di leggere il sedicente capolavoro di Ellis, American Psycho. Perché per combattere il male bisogna conoscerlo.
Passo dunque a analizzare la serie di errori clamorosi dell’amato Bret.
Spoiler follows, come scriveva Aaron Swartz sul suo blog, frase che adotterò d’ora in poi, ché mi caratterizza molto.
Innanzi tutto, fino a un terzo del libro ci sono solo sminchionate varie sul benessere finanziario dei personaggi, descrizioni prolisse del loro abbigliamento firmato – simbolo dunque di una dipendenza tossica dai brand –, degli esosi pranzi nei ristoranti à la page (come ripete Ellis in un mantra snervante), delle sortite in palestra per mantenersi belli belli belli in modo assurdo.
Suppongo tutto questo sia una critica costruttiva** al consumismo americano, concetto che Wallace aveva già espresso (molto meglio, s’intende) in Infinite Jest descrivendo non già banalmente facoltosi ragazzotti che possono comprare tutto, bensì una società dove l’acquisto indiscriminato di beni (inutili, ma indispensabili grazie al lavaggio del cervello della pubblicità) è arrivato al parossismo e le multinazionali sono in grado di comprare anche il tempo (ma non divago, ho già detto tutto qui).
Dopo questo martirio e una serie quasi infinita di parole e concetti espressi fino alla nausea, capiamo finalmente che tutto ciò è servito a dire che il protagonista è sì ricchissimo, bellissimo e superficialissimo (tutti superlativi), ma è pure un serial killer (e qui va citato l’unico merito del romanzo, insieme forse ai capitoli dedicati agli album musicali, ossia l’ironizzare sulle psicosi del personaggio, esplicitamente affermante le sue efferatezze durante telefonate amicali, ordinazioni di piatti succulenti eccetera).
Ora, Bret, vorrei spiegarti un concetto molto banale, ma efficace, a mio parere. La letteratura è quella cosa che ti permette di scrivere un libro anche non dicendo tutto tutto tutto. Quando scrivi un dialogo, non lo scrivi mica come avverrebbe in realtà, dicendo tutto tutto tutto, tipo buongiorno-come-stai?, bene-grazie-e-tu? Passi subito al dunque. Perché sennò il lettore si stressa e poi dice che il tuo non è un romanzo cult come hai fatto credere a tutti non si sa bene come, ma solo un noioso libercolo con manie di onnipotenza, specie poi se ti permetti di criticare autori più bravi di te. Ci aizzi, a noi lettori-di-autori-più-bravi-di-te, capisci?!
Così, Bret, era molto meglio se avessi evitato le centinaia e centinaia di pagine di descrizioni griffate per farci entrare nella psicologia del personaggio. L’avevamo capito anche alla ventesima, di pagina.
Dunque, Bret, io volevo dirti che sono contenta di stare nel Pantheon degli imbecilli, perché è molto più à la page del tuo inferno di stronzate.


* Omaggio personale a DFW, manco tanto originale, a dire la verità.
** Sia chiaro che lo dico in senso del tutto ironico e anche un po’ presaperculescamente.

sabato 2 febbraio 2013

Si chiama Francesca, questo romanzo


C’è un solo modo, dicono i sufi […] per sapere se si ha bisogno di un chiodo o di una vite per costruire una panca: conficcare il chiodo. Se il legno si spacca, dicono i sufi, vuol dire che è una vite che c’era bisogno.
Questo romanzo parla di un certo Learco, questo romanzo che si chiama Si chiama Francesca, questo romanzo, di un certo Learco che legge filosofia sufi e traduce da e in russo e che è ustionato e scrive romanzi mentre indossa una tutina mentre gli ricresce la pelle e la prende con filosofia (sufi), questa faccenda di essere ustionato.
Che poi una storia vera e propria non c’è come sempre succede in questi libri di certi autori come Paolo Nori che vanno tanto di moda adesso (e ci sarà un motivo se ci siamo stufati di leggere melense e problematiche relazioni extraconiugali di mariti sull’orlo di una crisi di nervi a causa delle mogli che tradiscono o, peggio, i colori delle sfumature dei coglioni che ci fanno quelli che fanno successo per aver scritto un romanzo simil-Harmony per casalinghe represse) ché adesso con questa letteratura modernista ci siamo abituati e ci piace tanto questo dilagante treperdue di anacoluti e figure retoriche e mancanza di punteggiatura e soprattutto di virgole, che puoi togliere solo quando hai imparato a usarle bene (autocit.), sennò si capisce che non le sapevi usare neanche prima quando le usavi. Che poi viene fuori una scrittura ossessivo-compulsiva bellissima. E allora la trama se proprio proprio c’è la necessità di raccontarla perché magari come Learco ci sono Ada e Gina nella vostra testa che ve la chiedono si può riassumere così: “la storia che racconta questo romanzo è l’intricata vicenda di un trasloco da Basilicanova provincia di Parma a un appartamento ammobiliato a Bologna poco lontano dalla stazione”.
Che poi io che volevo fare tanto la figa che ho comprato Si chiama Francesca, questo romanzo da Marcos y Marcos alla fiera dell’editoria indipendente a Roma e invece poi scopro che l’aveva pubblicato prima Einaudi che si conferma ancora (e credo sempre) la mia preferita nonostante qualche cazzata autore di merda e copertina sbagliata.
Che poi se leggi un romanzo senza punteggiatura ti viene pure a te di non usarla e non è detto che ti riesca bene però piuttosto che niente, però piuttosto che niente è meglio piuttosto, come dicono a Parma. 

lunedì 26 novembre 2012

L’incanto del lotto 49



Amanti delle trame, per il vostro bene: non avvicinatevi all’Incanto del lotto 49. Trame non ne troverete. Intrighi, sì, a palate. Soprattutto irrisolti.
Un filo flebile lega a sé i caotici episodi del romanzo, una (presunta) cospirazione mondiale che coinvolge le trasmissioni postali. E un lotto, il 49, di francobolli, falsi autentici (felice ossimoro) di un’organizzazione antichissima che si oppone ai canali convenzionali della comunicazione.
In embrione i temi cari al geniale David Foster Wallace, che pare si sia ispirato all’Incanto del lotto 49 quando scrisse Infinite Jest: droga, paranoia, ossessione e comunicazione, appunto. Solo che l’allievo supera il maestro, secondo me. La forza e l’intensità dei romanzi di Wallace si deve anche, e inevitabilmente, alla loro lunghezza, che permette all’autore di conferire peculiarità al mondo che descrive e a coloro che ne sono parte. Qui, invece, benché abbiano gli stessi tratti satirici e nei caratteri e nei nomi, i personaggi risultano poco incisivi e di loro si capisce ben poco. Alla ridondanza di informazioni di Wallace si contrappongono in Pynchon figure indolenti prive di passato. Appena accennate.
E questo non mi ha fatto apprezzare il romanzo come forse avrebbe meritato, perché bisogna stare non più di un passo oltre il lettore. Se se ne fanno troppi, quello si stufa.

Infine, una facile chiattiveria. Triste, anzi Trystero, l’errore di Einaudi Stile libero che, invece di copiare la copertina che hanno proposto tutti gli editori da che Gutenberg inventò la stampa, in uno slancio d’ingegno sostituisce il corno postale con una moderna tromba da jazz (ci volevate portare direttamente a New Orleans?!). A dimostrazione che i romanzi toccherebbe leggerli se si vuole pubblicarli.
Per la cronaca, L’incanto del lotto 49 era edito da e/o. Che la copertina l’aveva azzeccata.

A sinistra la copertina sbagliata di Einaudi e a destra quella giusta di e/o

martedì 9 ottobre 2012

Il tempo materiale


In una Palermo che sta vivendo, specchio del paese tutto, anni di forte instabilità politica e culturale, e che vede cadere tante delle certezze sulle quali poggiavano i suoi valori, tre non-ragazzini, che parlano e agiscono come adulti, come adulti applicano e fanno propri princìpi e dogmi su cui qualcun altro ha fondato il proprio credo, al punto da fondare una sorta di cellula terroristica in miniatura a emulazione delle Brigate Rosse. Parlano e agiscono ispirati non tanto dall’ideologia del più grande organo terroristico della nazione quanto dalla volontà di averne una propria. In nome di quest’ideologia costruiscono un mondo nel quale tutto è vòlto a imitare una realtà che non richiede spiegazioni. Scimmiottando i loro capostipiti, i tre inventano un linguaggio segreto fatto di gesti e, in nome di qualcosa che non possono comprendere appieno, arrivano persino a atti estremi.
Il protagonista, accompagnato dai suoi compagni umani – nell’accezione più comunista del termine – e animali – grilli parlanti decadenti e agonizzanti –, cresce al contrario, diventa piccolo dopo essere stato grande.
Spaventosamente bello per il linguaggio usato, Il tempo materiale  è il primo romanzo di Giorgio Vasta. Mi auguro caldamente che ne seguiranno di nuovi.
Un encomio a minimum fax, una delle poche case editrici che riporta l’elenco di coloro che hanno contribuito alla realizzazione del libro.

venerdì 14 settembre 2012

Infinite Jest

Al liceo il professore di Fisica ci spiegò la multidimensionalità dicendoci di immaginare un foglio con un disegno tridimensionale e ripiegarlo su sé stesso in modo da formare una sfera. È così che immagino Infinite Jest, con una dimensione in ogni storia e una nuova tutto insieme.
Tutto è (e finisce in) uno scherzo, lo scherzo infinito del titolo che fa del romanzo un metaromanzo, così come succede alla sua essenza – il testo – attraverso le note (qui, per ovvie ragioni, non a piè di pagina), parte integrante e non accessoria del testo stesso.
Un romanzo sull’ossessione per l’ossessione, che si ritrova tanto nell’agonismo del tennis o nella dipendenza dagli stupefacenti quanto in quella più grande per l’Intrattenimento. E l’ossessione è anche quella del lettore che, con la rilettura, genera una sorta di moto perpetuo.
Come tanti autori prima di lui, Wallace ha inventato una (quasi) cosmogonia, un mondo dominato dalle multinazionali che possiedono persino il tempo, per antonomasia immateriale, grazie alla sponsorizzazione degli anni.
Traslandolo, questo concetto di mondo dove tutti sono uguali, e ugualmente consumatori, si riflette, nella scrittura, nell’esigenza di ridurre tutto a un acronimo, omologare, uniformare, che trova un antenato nel retaggio culturale che ancora oggi possediamo dei numeri tatuati al braccio degli ebrei. Così, gli Stati Uniti hanno accorpato Messico e Canada in una grande organizzazione, l’Onan, un acronimo per indicare un’entità anonima, senza identità. Ma anche – dall’origine del termine, che viene da onanismo – un paese sterile, che si compiace di sé stesso. In questo senso l’Onan rappresenta il male di una generazione, la nostra, che si sta progressivamente consumando gli occhi, ma soprattutto il cervello, davanti a un teleputer che trasmette quello che vuole, facendoci credere che è quello che vogliamo.
Infinite Jest è un’opera che ha rivoluzionato la scrittura, un’opera in cui lo scherzo è uno spauracchio per la paura e una richiesta d’aiuto (“Il sarcasmo e le battute erano spesso bottiglie all’interno della quali i depressi clinici inviavano i loro messaggi più disperati nella speranza che qualcuno se ne accorgesse e li aiutasse”), forse anche dell’autore stesso, la beffa un gioco di parole per descrivere la realtà e l’ironia letteratura.

lunedì 9 luglio 2012

Elisabeth


È ad Amstetten, nella civile e insospettabile Austria, che si consuma «il più complesso delitto contro l’essere umano»: Elisabeth Fritzl, non ancora maggiorenne, viene segregata dal padre Josef in un bunker antiatomico da lui stesso costruito sotto le fondamenta di casa. Ne uscirà, avvizzita e rassegnata – perché «perfino del dolore ci si dimentica» –, solo dopo ventiquattro anni.
Chiudendo fuori dalla porta il mondo «di sopra» e con esso – per un tempo che sarà sempre – il suo cielo di una «serenità patetica», Elisabeth sarà relegata dal padre-aguzzino in una gabbia, una «voliera perfetta in cui mettere al riparo l’uccellino più fragile», dove le continue violenze le ricacceranno «dentro anche tutte le speranze di non essere toccata». Annientata nel corpo e nell’animo, Elisabeth deciderà di vivere, perché non saprà morire.
È da qui che si muove Sortino che fa, con uno stile misurato ma incisivo, di ogni frase una metafora, di ogni parola immagine. La sua è un’Elisabeth che, in un perenne «stadio di mezzo tra il dileguarsi e l’esserci per forza», si dissolverà nel grigiore della sua prigione «assumendo le sembianze del dolore», che non vorrà ascoltare lo scorrere del tempo, che giocherà con gli elettrodomestici – i suoi unici compagni –, che partorirà sette figli, che vedrà uno di loro morire e che si rassegnerà infine al suo destino: un oggetto che non potrà mai brillare frontalmente, ma mostrare la sua luce solo «nel taglio che lo separa dal mondo».
Con una maturità insolita per un libro d’esordio, l’autore diventa perno di un equilibrio che non pende mai verso l’ovvia descrizione del mostro ma ne racconta la normalità e la, sebbene inimmaginabile, capacità d’amore.
Un romanzo insostenibilmente vero, un viaggio in un umido girone dantesco che diventa realtà, un abisso di carne, umori e cemento.

Da LSC Mag di luglio 2012.
 
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