mercoledì 28 luglio 2010

Dillo con parole mie

Questo “filmetto”, come lo chiamerebbe mia sorella (che evidentemente non è d’accordo con me sulla genialità del lungometraggio, lei che vede solo film giapponesi o coreani in cui gli attori non dicono una parola), è uno dei miei preferiti.
Non sarà profondo, non sarà giapponese, né (purtroppo) coreano, ma vorrei farvi - e farle - notare alcuni di coloro che hanno partecipato alla sua realizzazione: Daniele Lucchetti, già regista di Mio fratello è figlio unico e, più recentemente, de La nostra vita, con cui Elio Germano ha vinto il premio come miglior attore a Cannes; Ivan Cotroneo, sceneggiatore; Gianpaolo Morelli, Il Commissario Coliandro.

La protagonista è Stefania, 30enne piena di fissazioni tutte sue, delle quali personalmente ho fatto la mia filosofia di vita e che ho, in parte, raccontato in La cioccolata non fa ingrassare se la mangi senza senso di colpa. Galeotto - al contrario - fu quel film e chi strappò i biglietti al cinema Mignon, che la fece lasciare con Andrea, dopo ben otto anni. «Non si lascia una dopo otto anni! Mentre stavamo insieme il mondo è andato avanti, le coppie che si dovevano formare si sono formate, quelli carini sono diventati gay!»
Non solo, arriva sua nipote Megghy, che sfortunatamente per lei non è il diminutivo di Martina - il suo vero nome - , la quale ha deciso di passare le vacanze non più al solito campo scout, ma sull’“isola dell’amore” per perdere la verginità, come hanno fatto le sue compagne («Sì, se ci si butta lei dal ponte mi ci butto pure io, perché noi adolescenti vogliamo fare tutti la stessa cosa!»). Ed è qui che si farà portare dalla zia, ingannandola, dopo un viaggio, allietato dalla puzza di piedi, sul traghetto dei fricchettoni diretto a Ios, Cicladi, Grecia.
“Non a caso: il caso”, come recita la pellicola: sull’isola dell’amore c’è Andrea che Megghy crede Enea («Enea?! Che fico, al tema sull’Eneide c’ho preso sette!»), di cui si innamora.
Nasce così un dialogo a tre in cui la povera adolescente fa in realtà solo da tramite tra i due ex fidanzati, inconsapevoli di ciò che sta succedendo. Da una parte, lei che cerca di capire il tipo e di parlargli con parole sue - seppure con scarsi risultati («Stefi, ci sarai pure stata negli anni ’80, ma non c’hai capito un ca**o!») - , dall’altra lui che cucina la torta al cioccolato con l’ingrediente segreto («… che poi sono due: zenzero e cannella»).
Finale canterino sulle note di Mina, nel quale non posso che, mio malgrado, identificarmi (… se un uomo sa di fumo, ma sì, ma sì, è veramente un uomo…).

Ma tutto questo per sottolineare, oltre alle battute che già ho citato (tra le più esilaranti che l’odierno cinema italiano abbia proposto, a parer mio), alcuni elementi davvero significativi. Sono convinta che molte ragazze saranno d’accordo con me.
Innanzi tutto, c’è quello che tutte le donne vorrebbero fosse vero:
«Il cioccolato non fa mica ingrassare! […] No, anzi, fa proprio dimagrire, perché ti dà energia. Più energia hai più ti metti in moto, più ti metti in moto, più dimagrisci.»
Inoltre:
«Le fotografie cambiano perché, appena fatte, non ti piaci mai. Dopo qualche mese, invece, la tragedia è che non sei più così!»
Poi c’è quello che tutte noi diciamo al nostro fidanzato:
«Nel tuo vocabolario esistono solo verbi passivi!»
E, infine, la battuta che, più di tutte, mi rappresenta:
«Mi sono vista dall’esterno e mi sono data pure un titolo: la stronza!»

mercoledì 14 luglio 2010

Il catino di zinco

1-1, palla al centro per la Mazzantini, di cui avevo letto solo il tanto osannato Non ti muovere, che di Premio Strega c’ha, per me, tanto quanto le orecchie di Carlo d’Inghilterra c’hanno di quelle di un elefante… cioè, sì, sono grosse, ma insomma… Invece questo “catino di zinco” non mi è per niente dispiaciuto.
Alcuni elementi degni di nota.
Prima cosa: il titolo, evocativo, oltre che delle abitudini della protagonista, anche di una delle tante condizioni alle quali malvolentieri è costretta una donna.
Seconda: il linguaggio. Solenne e semplice, in equilibrio. A tratti grottesco, a volte anche scurrile. E poi un uso quasi spregiudicato delle parole che richiamano la quotidianità, spesso inventate, il che mi ha particolarmente stupito.
I personaggi, inoltre, non vengono presentati coi loro nomi, ma pressoché connotati solo da aggettivi, con cui compaiono per tutto il libro, quasi senza essere nominati, come del resto accade anche per la protagonista.
Non è sentimentale, anzi la crudeltà di chi è costretto ad accudire un malato, come in questo caso deve fare la nipote con la nonna, non viene edulcorata, ma descritta senza inutili giri di parole.
Infine, alcuni passaggi raccontati con un bel monologo interiore, diverso nello stile da quelli più conosciuti.
Dovrò forse ricredermi sulla scrittrice-attrice?

mercoledì 7 luglio 2010

Momenti di romanticismo

Chiara: «Perché c’è un nido nella tua libreria?!»
Ciro: «Così… perché è romantico, bello, è il simbolo della famiglia…»
Chiara: «Ma è un ricettacolo di polvere!»
Ciro: «Sei un mostro!»
 
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