martedì 9 agosto 2016

American Psycho




«Chiunque giudichi Foster Wallace un genio letterario dovrebbe essere incluso nel Pantheon degli imbecilli». Questo scrisse Bret Easton Ellis del Più Grande Scrittore Di Tutti I Tempi*.
Sapevo di questa infelice uscita, ma l’ho ignorata fino a quando, punta sul vivo, ho deciso di leggere il sedicente capolavoro di Ellis, American Psycho. Perché per combattere il male bisogna conoscerlo.
Passo dunque a analizzare la serie di errori clamorosi dell’amato Bret.
Spoiler follows, come scriveva Aaron Swartz sul suo blog, frase che adotterò d’ora in poi, ché mi caratterizza molto.
Innanzi tutto, fino a un terzo del libro ci sono solo sminchionate varie sul benessere finanziario dei personaggi, descrizioni prolisse del loro abbigliamento firmato – simbolo dunque di una dipendenza tossica dai brand –, degli esosi pranzi nei ristoranti à la page (come ripete Ellis in un mantra snervante), delle sortite in palestra per mantenersi belli belli belli in modo assurdo.
Suppongo tutto questo sia una critica costruttiva** al consumismo americano, concetto che Wallace aveva già espresso (molto meglio, s’intende) in Infinite Jest descrivendo non già banalmente facoltosi ragazzotti che possono comprare tutto, bensì una società dove l’acquisto indiscriminato di beni (inutili, ma indispensabili grazie al lavaggio del cervello della pubblicità) è arrivato al parossismo e le multinazionali sono in grado di comprare anche il tempo (ma non divago, ho già detto tutto qui).
Dopo questo martirio e una serie quasi infinita di parole e concetti espressi fino alla nausea, capiamo finalmente che tutto ciò è servito a dire che il protagonista è sì ricchissimo, bellissimo e superficialissimo (tutti superlativi), ma è pure un serial killer (e qui va citato l’unico merito del romanzo, insieme forse ai capitoli dedicati agli album musicali, ossia l’ironizzare sulle psicosi del personaggio, esplicitamente affermante le sue efferatezze durante telefonate amicali, ordinazioni di piatti succulenti eccetera).
Ora, Bret, vorrei spiegarti un concetto molto banale, ma efficace, a mio parere. La letteratura è quella cosa che ti permette di scrivere un libro anche non dicendo tutto tutto tutto. Quando scrivi un dialogo, non lo scrivi mica come avverrebbe in realtà, dicendo tutto tutto tutto, tipo buongiorno-come-stai?, bene-grazie-e-tu? Passi subito al dunque. Perché sennò il lettore si stressa e poi dice che il tuo non è un romanzo cult come hai fatto credere a tutti non si sa bene come, ma solo un noioso libercolo con manie di onnipotenza, specie poi se ti permetti di criticare autori più bravi di te. Ci aizzi, a noi lettori-di-autori-più-bravi-di-te, capisci?!
Così, Bret, era molto meglio se avessi evitato le centinaia e centinaia di pagine di descrizioni griffate per farci entrare nella psicologia del personaggio. L’avevamo capito anche alla ventesima, di pagina.
Dunque, Bret, io volevo dirti che sono contenta di stare nel Pantheon degli imbecilli, perché è molto più à la page del tuo inferno di stronzate.


* Omaggio personale a DFW, manco tanto originale, a dire la verità.
** Sia chiaro che lo dico in senso del tutto ironico e anche un po’ presaperculescamente.
 
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