domenica 23 settembre 2018

Avessi sposato un milionario


Farcela da soli è un concetto usato piuttosto accazzo, specialmente dalle donne che, ancora e ancora, dicono di farcela da sole e poi dietro una grande donna di solito c’è un uomo con grandi soldi oppure un uomo con pochi soldi che però guadagna lui e si usano in due quindi io a volte vorrei trovare un milionario che mi mantenga e non lavorare e leggere e scrivere e guardare Real Time tutto il tempo e magari scrivere un romanzo, però poi, oh, per esempio guardo ClioMakeUp e penso che il successo è arrivato col marito che l’ha portata a New York e mentre lui lavorava lei stava a casa a truccarsi e allora ha pensato di fare in italiano quello che le youtuber ammericane facevano in inglese e si è truccata in italiano e, oh, è andata bene e quindi, oh, brucia dirlo, ma forse meglio Chiara Ferragni, che s’è messa dentro una vasca da bagno con l’insalata, ma almeno da sola, oppure Carrie Bradshaw, che pure scrive, però c’è che io trovo difficile distinguere il ruolo semantico dell’attore dal personaggio e ho visto Hocus Pocus prima di Sex and the City e chi l’avrebbe mai detto che una strega avrebbe solcato le strade di Manhattan calzando un paio di Jimmy Choo, quindi va bene la strega, ché mi ci ritrovo parecchio, però poi io a scrivere di amorucoli no e poi c’è che quando ascolto Pagina 3 e Nicola Lagioia legge questo articolo qui di quando Sergio Garufi incontra per la prima volta Borges io, così, senza sapere perché, piango in macchina come una stupida e allora, se proprio proprio devo scrivere cazzate, che almeno siano quelle della mia rubrica Mente Cattiva su Lsc Mag, che non legge nessuno, manco i miei fidanzati dell’epoca, all’epoca. E, insomma, avessi sposato un milionario, chissà, avrei saputo come truccarmi.

venerdì 21 settembre 2018

L’Iperboria® del premio Streghe®


Ora che non c’è più Baricco in televisione a farci distinguere il bene dal male, ognuno si regola come può, e io e i miei amici più spocchiosi mangiamo eventi a base di libri.
Essendo io addetta in pectore alla pulizia dei cessi di Liberi sulla Carta, carica ancora non ufficiale che mi fregio di possedere dall’edizione 2016, vorrei spendere due parole sulla nostra fiera.
Abbiamo cominciato inconsapevoli del successo come una Kate che organizzava il suo matrimonio non sapendo che poi tutti avrebbero guardato il culo di Pippa e poi siamo diventati Pippa, dunque vorrei ricordare, superpartesmente, che qui da noi sono arrivati Luis Sepúlveda e Nanni Moretti, per citarne due, e ci saranno ricchi scrittori e cotillons nell’edizione di quest’anno che non sarà certo da meno. Se vai al festivaletteratura di Mantova sarà come mangiare minestrina col dado dopo aver assaggiato l’aragosta, che tra l’altro considera l’aragosta, poi fai tu.
Nel frattempo, al Circolo Pickwick portiamo avanti una reading challenge, come la chiamerebbero gli italiani col profilo Instagram in inglese (aiutiamoli a casa loro): quaranta libri da leggere nel corso dell’anno, ognuno appartenente a una categoria diversa.
Come young adult, personalmente ho scelto Twilight, che, lo vorrei dire a tutti, si può leggere, si può, ma solo pensando forte forte a Cedric Diggory, altrimenti va bene per gli origami. Dalle stelle alle stalle, L’ingegnere in blu (romanzo con protagonista che ha il tuo stesso lavoro), un esercizio di stile troppo stile: non ho capito la metà delle parole, l’altra metà era in un’altra lingua; poi Rosemary’s Baby come horror, ma chiamarlo horror per far sopravvivere il genere sarebbe accanimento terapeutico, Il mago di Terramare come volume di una saga, dall’amaro sapore di una raccolta dei bollini della Coop: se non ne hai abbastanza te tocca l’asciugamano infeltrito, continuando con un rassicurante Kafka (America) come libro incompiuto, e, passando per svarioni erotically correct come Paura di volare, siamo arrivati all’autore scandinavo e quindi all’Anno della lepre cui ho detto no, come libro, se poi parliamo della copertina sì e sì anche al formato (Iperborea ha fatto la più grande operazione commerciale-grafica cui io abbia mai assistito), solo che io l’ho comprato in e-book e non lo posso neanche riciclare per Natale. Un’incursione non prevista con Le stanze dell’addio – che non ha preso il preso il premio Strega, figuriamoci il nostro premio Streghe®, ché noi non abbiamo il cuore tenero come gli accademici della Crusca che si sono fatti intenerire da aggettivi come petaloso – ci ha fatto arrivare alle Rane di Mo Yan, che praticamente parla di comunisti che mangiano bambini, ma a me, boh, leggere orientali mi lascia sempre con la fame come quelli che vanno all’All you can eat sushi: dopo cena stanno tutti dallo zozzone a magna’ il panino colla porchetta.
Non poteva mancare Infinite Jest, che ha una categoria a parte e che è stato proposto dalla sottoscritta, come noto accanita fan del compianto David Foster Wallace, bonanima, che si è fatta infinocchiare, come quei poracci che credono ai titoli in corpo 20 che dicono che il premio Strega l’ha vinto finalmente una casa editrice indipendente, andando al Rave Foster Wallace.
Organizzato da Stefano Bartezzaghi, pensavo l’evento come un raduno per fondamentalisti infinitejestiani come me che hanno pensato a una copertina alternativa del romanzo (ché nulla si crea, nulla si distrugge, tranne le nuvole dalla Little, Brown a Fandango e Einaudi) e invece si è rivelato solo un immenso Truman Show interpretato da attori il cui livello di drammaturgia sfiorava, ma non arrivava, a quello della mia compagnuccia delle elementari che faceva Dorothy nella recita del Mago di Oz, con un pubblico non pagante di fidanzato dell’attore quello, figlia dell’attrice quell’altra, questo accanto a me che non ha nemmeno cominciato il romanzo, per non parlare di chi l’ha abbandonato, e quest’altro che preferisce ommioddio Murakami, colle zanzare che ci pungono che manco all’Isola dei famosi e nemmeno una Millennial Fizzy a dissetarci la gola riarsa, figuriamoci la baklava della signora Clarke. Dovevo capire tutto dalla prefazione della Scopa del sistema.
Fortuna che ci siamo rifatti col salone del libro di Torino, cominciando con una conferenza in cui qualcuno – poiché tocca sempre decidere a cosa consacrare la propria vita, e meno male che ci sono questi che hanno deciso per l’elfico e il runico – ci ha spiegato che il quenya è una lingua oramai a uso esclusivo dei più colti e è stata soppiantata dal sindarin.
Abbiamo poi continuato con un simposio sull’uso dell’italiano: Francesco Sabatini, ottantasette anni di pensieri ordinati in lemmi al-mz, Vittorio Coletti, l’altra parte del dizionario, e Luca Serianni, moderati da un ubiquitario Giordano Meacci (che doveva vincere lo Strega 2016, assolutamente), a discutere sulla salvaguardia dei termini in estinzione e l’abbandono del toscano codesto. Se solo sapessero che da noi è invalso l’uso degli avverbi di luogo dècco, dèsso, dèllo! Ma, tranquilli, ci siamo noi, wweffini di Sabina, a portare alto lo stendardo del dialetto, sennò si fa la fine del quenya.
Ultimo giorno dedicato alla razzia dei libri ché, si sa, l’ultimo giorno c’è sempre almeno il 15% di sconto e tu mi vuoi vendere Settanta acrilico trenta lana a prezzo pieno, ragazza di e/o, dunque arrenditi e alza le mani molto lentamente da quel romanzo e nessuno si farà male, e lo so che quest’anno anche voi vi siete dati al fantasy, ma, sai, a me la letteratura di genere non mi piace, mi piace solo la letteratura e infatti adoro Il signore degli anelli e leggo Camilleri. Perciò, uno sguardo veloce al catalogo del prossimo stand coi nuovi, allettanti formati, ma noi passiamo avanti, perché voi Iperborea, noi Iperboria®.

Grazie a Marta e Federico per aver inventato i marchi di fabbrica di questo articolo.

Da LSC Mag di settembre 2018
 
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