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mercoledì 28 luglio 2010

Dillo con parole mie

Questo “filmetto”, come lo chiamerebbe Sorella (che evidentemente non è d’accordo con me sulla genialità del lungometraggio, lei che vede solo film giapponesi o coreani in cui gli attori non dicono una parola), è uno dei miei preferiti, anche se non lo annovererei tra i più grandi capolavori cinematografici di sempre.
Non sarà profondo, non sarà giapponese, né (purtroppo) coreano, ma vorrei farvi notare alcuni di coloro che hanno partecipato alla sua realizzazione: Daniele Luchetti, già regista di Mio fratello è figlio unico e, più recentemente, della Nostra vita, con cui Elio Germano ha vinto il premio come miglior attore a Cannes; Ivan Cotroneo, sceneggiatore; Gianpaolo Morelli, Il Commissario Coliandro.

La protagonista è Stefania, trentenne piena di fissazioni, delle quali personalmente ho fatto la mia filosofia di vita e che ho, in parte, raccontato in La cioccolata non fa ingrassare se la mangi senza senso di colpa. Galeotto, al contrario, fu quel film e chi strappò i biglietti al cinema Mignon, che la fece lasciare con Andrea, dopo ben otto anni. «Non si lascia una dopo otto anni! Mentre stavamo insieme il mondo è andato avanti, le coppie che si dovevano formare si sono formate, quelli carini sono diventati gay
Non solo, arriva sua nipote Meggy, che sfortunatamente per lei non è il diminutivo di Martina («...infatti è un'ingiustizia!»), il suo vero nome, la quale ha deciso di passare le vacanze non più al solito campo scout, ma sull’“isola dell’amore” per perdere la verginità, come hanno fatto le sue compagne («Sì, se ci si butta lei dal ponte mi ci butto pure io, perché noi adolescenti vogliamo fare tutti la stessa cosa!»). Ed è qui che si farà portare dalla zia, ingannandola, dopo un viaggio, allietato dalla puzza di piedi, sul traghetto dei fricchettoni (che ho fatto anch'io per Lefkada) diretto a Ios, in Grecia.
“Non a caso: il caso”, come recita la pellicola: sull’isola dell’amore c’è Andrea che Meggy crede Enea («Enea?! Che fico, al tema sull’Eneide c’ho preso sette!»), di cui si innamora.
Nasce così un dialogo a tre in cui la povera adolescente fa in realtà solo da tramite tra i due ex fidanzati, inconsapevoli di ciò che sta succedendo. Da una parte, lei che cerca di capire il tipo e di parlargli con parole sue, seppure con scarsi risultati («Stefi, ci sarai pure stata negli anni ’80, ma non c’hai capito un cazzo!»), dall’altra lui che cucina la torta al cioccolato con l’ingrediente segreto («… che poi sono due: zenzero e cannella!»).
Finale canterino sulle note di Mina, nel quale non posso che, mio malgrado, identificarmi («… se un uomo sa di fumo, ma sì, ma sì, è veramente un uomo…»).

Ma tutto questo per sottolineare, oltre alle battute che già ho citato (tra le più esilaranti che l’odierno cinema italiano abbia proposto, a parer mio), alcuni elementi davvero significativi. Sono convinta che molte ragazze saranno d’accordo con me.

Innanzi tutto, c’è quello che tutte le donne vorrebbero fosse vero:
«Il cioccolato non fa mica ingrassare! […] No, anzi, fa proprio dimagrire, perché ti dà energia. Più energia hai più ti metti in moto, più ti metti in moto, più dimagrisci.»

Inoltre:
«Le fotografie cambiano perché, appena fatte, non ti piaci mai. Dopo qualche mese, invece, la tragedia è che non sei più così!»

Poi c’è quello che tutte noi diciamo al nostro fidanzato:
«Nel tuo vocabolario esistono solo verbi passivi!»

E, infine, la battuta che, più di tutte, mi rappresenta:
«Mi sono vista dall’esterno e mi sono data pure un titolo: la stronza!»

Geniale (nel suo genere): guardatelo!

martedì 11 maggio 2010

Babbo bastardo

Se odiate l’improvvisa voglia di tenerezza che pervade l’animo di tutti coloro che vedono approssimarsi il Natale, disprezzate quell’atmosfera da Casa nella prateria che impregna anche le menti più crudeli e desiderereste radere al suolo il campo di dorate spighe di grano che circonda la casa del Mulino Bianco, allora forse vi piacerà l’esplicita cattiveria di questo irriverente Santa Claus. Ubriacone, sboccato e che avrebbe preso a schiaffi il bambino di Quattro salti in padella se solo avesse osato dire: «Peccato, tutto petto!», anno dopo anno, ogni festività natalizia, rapina, insieme al suo complice - un nano nero che indossa punte di orecchie da elfo bianco - i centri commerciali in cui è costretto a lavorare ascoltando le richieste di dono degli odiosi marmocchi tenendoli sulle sue ginocchia.
A conquistare il falso Babbo Natale non sarà, però, una romantica freccia, bensì un cetriolo scolpito da un bambino ciccione.
L’happy end c’è, ma non è del tutto happy. D’altra parte, “Shit happens when you party naked”, ossia “È inevitabile che succedano casini se vai alla festa nudo”… lo scoprirete solo guardandolo. Alla faccia di chi dice che sono una spoiler!
Inutile dire che mi è piaciuto.

lunedì 3 maggio 2010

Caterina va in città

Caterina, insieme alla sua famiglia, si trasferisce dal paesello alla grande metropoli, tra lo sgomento dei suoi parenti e i rimbrotti di Cesarino che dice che, sì, Roma è «una città molto valida dal punto di vista storico, ma troppo dispersiva e piena di str**zi».
Con un padre meschino, insoddisfatto del proprio lavoro, fallito nelle sue ambizioni letterarie e una madre più che sempliciotta, non c’è da stupirsi che la povera Caterina si vergogni di dire ai cosmopoliti compagni il nome del suo borgo di provincia, Montalto di Castro («Nord, nord ovest… tipo costa tirrenica», che un suo compagno non esita a commentare con l’esilarante battuta «Le freshche frashche»), dove le sole teste rasate sono «i miei cuginetti quando hanno preso i pidocchi alla scuola materna» e in cui l’unico centro sociale è Il Trombolone, frequentato da un «gruppo di pensionati simpaticissimi che organizzano tornei a scopone».
Tra comunisti e fascisti in miniatura, l’unica “non classificata” è proprio Caterina che, dopo un breve idillio con Margherita la zecca - quella che va in giro e fa cose, figlia di un famoso scrittore -, comincia a frequentare Daniela la pariola - quella che canta Faccetta nera, figlia di un uomo politico -, fino a che non la sentirà criticare il proprio abbigliamento («Sembra un’extracomunitaria») e il proprio padre.
Schifata dai cittadini e, dopo essere diventata cittadina, anche dai paesani («…come tutti quelli di Roma che si credono ‘sta ceppa solo perché stanno nella capitale e hanno due squadre in serie A!»), si consola ballando da sola mentre ascolta l’opera.
Amaramente il film si conclude con un caloroso abbraccio fra l'intellettuale di sinistra e il politico di destra perché, si sa, gli estremi, come in un cerchio, si rincontrano.

I ruoli sociali dei genitori delle compagne di scuola di Caterina, agli antipodi, possono facilmente essere traslati in quelli delle loro figlie, infatti i rapporti in aula, che rappresenta la società in piccolo, sono meri giochi di potere, ad emulazione di quelli dei propri cari che, se da una parte ricoprono cariche intellettuali e politiche al più alto grado, non riescono dall’altra a gestire la propria vita.
Una commedia amara che testimonia lo smarrimento degli adolescenti (ma anche no) alla ricerca della propria identità, ma anche il decadimento della società di oggi, divisa tra idee nettamente contrapposte e che gridano a gran voce di esserlo, che però alla fine inseguono l’unico, comune, scopo di affermare la propria superiorità. 
Il tutto raccontato piuttosto cinicamente e di certo non attenuato dal lieto fine in cui la protagonista, estranea a tutto ciò che la circonda, topo di campagna perduto nella vastità della metropoli, corona il sogno della sua vita.

martedì 13 aprile 2010

Alice in Wonderland

Non è sicuramente il libro scritto da Lewis Carroll. Non è neanche il capolavoro d’animazione che la Disney seppe trarre dal racconto. In quest’ottica, posso dire che è un film che mi è piaciuto, ma non mi ha certamente entusiasmato.
Rifare il classico più classico dei classici avrebbe di certo spiazzato qualunque sceneggiatore o regista o direttore artistico. Ma non avrebbe dovuto far tremare di paura Tim Burton. Che infatti, in maniera intelligente, ha scelto di narrare una storia nuova con gli stessi (azzeccatissimi) personaggi. Il problema è la trama. Derivarla dalla poesia del Ciciarampa che compare in Attraverso lo specchio è geniale, ma mi è sembrata oltremodo semplice. Né carne né pesce. Né Disney né Burton. Soprattutto l’idea di inserire l’Oraculum, il “compendio calendrico di Sottomondo”, è stata davvero infelice, perché svela il finale del film nei primi 10 minuti.
Nonostante ciò, ci sono molti aspetti pregevoli. Primo su tutti: i costumi che, come al solito, fanno sognare. Il cupo Sottomodo e la sua atmosfera gotica. I personaggi: Pinco Panco e Panco Pinco, che ognuno di noi vorrebbe a casa propria; il Brucaliffo, immerso nell’immancabile nuvola di fumo; lo Stregatto, bellissimo (ma poco convincente). Anche questa volta è il cattivo ad essere il più interessate: la capocciona e per questo complessata Regina Rossa che, coi suoi capelli alla Ornella Vanoni, non mi ha (quasi) fatto rimpiangere quella di Cuori disneyana e il suo «Tagliategli la testa!».
Degna di nota l’originale idea dei cortigiani della stessa Regina che, per farsi accettare da lei, camuffano il loro aspetto arricchendolo di difetti fisici simili al suo.
Carina anche quella di riprendere le caratteristiche dei personaggi del Paese delle Meraviglie dell’Alice bambina traslandole in quelli della sua vita reale da adulta (usata, però, già in una vecchia versione cinematografica del romanzo – quella, per capirci, dove Whoopy Goldberg faceva il Gatto del Cheshire).
Una nota stonata è rappresentata, secondo me, dalla svampita e poco alla moda Regina Bianca. Mia cara, che direbbe Miranda Priestly se ti vedesse con quelle sopracciglione nere e i capelli bianchi?!
Alice è una gattamorta e si cambia d’abito troppo spesso. Credeva forse di essere ad una sfilata di Dolce e Gabbana?
Pollice verso anche per Johnny Depp, eco, sempre più spesso, dei suoi personaggi, che conclude la sua interpretazione con un’imbarazzante balletto.
Detto questo, il finale fantasy io lo avrei sostituito con uno meno conformista. Perché tornare da un fidanzato con evidenti problemi di digestione, un lord che guarda nel fazzoletto in cui si è soffiato il naso, quando Alice avrebbe potuto decidere di andare a convivere a Sottomondo con quel gran figo del Cappellaio Matto?

venerdì 2 aprile 2010

The Imaginarium of Parnassus

«Il mondo in cui viviamo è pieno di magia per coloro che sono in grado di vederla»

Sicuramente visionario, The Imaginarium of Parnassus è, secondo me, pieno di riferimenti. Naturalmente quelli che ho potuto vedere io.
Il film racconta la vita di un uomo, il dottor Parnassus, che, dopo aver stretto un patto col Diavolo per ottenere l’immortalità, cambia drammaticamente idea (per conquistare una donna, pensate un po’) e chiede invece la mortalità: un po’ Faust, un po’ Dorian Gray al contrario. Il prezzo di quest’ultima sarà l’anima di sua figlia, Valentina, che, all’età di soli 16 anni, sarà costretta a cederla al Diavolo, il quale, tra parentesi, ricorda quello de Il Maestro e Margherita.
Nel frattempo Parnassus viaggia per Londra con una compagnia teatrale itinerante, The Imaginarium, un immenso carrozzone che mi ha fatto pensare a Il castello errante di Howl. Lo spettacolo che offre al pubblico coinvolge uno specchio magico, simile a quello di Alice in Attraverso lo specchio, entrando nel quale si entra in un mondo parallelo e fantastico.
Ora: ci sono varie interpretazioni che si possono dare all’atteggiamento del dottor Parnassus. Secondo me vuole guidare la mente del suo pubblico al fine di fargli raggiungere la consapevolezza, nel bene o nel male. (A sostegno di questa mia convinzione, cito un passaggio del film: «Se può controllare la mente delle persone perché non governa il mondo?», «Non vuole governare il mondo, vuole che il mondo si governi da sé»). Infatti, in una delle prime scene, un ubriacone entra nello specchio e si trova davanti ad una specie di universo dantesco in cui, da una parte, c’è la salvezza e, dall’altra, molto più semplicemente, un bar. È evidente il riferimento al contrappasso quando lui sceglie il bar, che però esploderà, a significare la sua pena eterna.
Alla compagnia intanto si unisce il giovane Tony, un delinquente che aiuta Parnassus nella ricerca delle anime.
E, ancora, una nuova scommessa fra il Diavolo e Parnassus: il primo dei due che riuscirà a sedurre cinque anime avrà quella di Valentina. Il Diavolo vince, inaspettatamente, proprio grazie a Valentina che decide di passare dalla sua parte, ma le scommesse non sono ancora finite perché il Diavolo, adducendo la scusa che Valentina fosse il premio di quella precedente e che non potesse pertanto prendere parte al gioco, proporrà a Parnassus l’ennesima sfida: uccidere Tony. Nel frattempo quest’ultimo aveva svelato la sua vera identità di criminale e aveva scoperto come coronare i suoi sogni attraverso lo specchio. Ho pensato che l’idea di far cambiare il volto di Tony quando attraversava lo specchio fosse geniale… poi ho scoperto che l’attore era morto e che si doveva rimpiazzare. Comunque io la parte finale l’avrei fatta fare a Johnny Depp e non a Colin Farrel… sempre meglio di Jude Law!
Ma perché il Diavolo vuole una cosa giusta, ossia uccidere un individuo abbietto che era stato disposto a vendere gli organi di bambini innocenti pur di arricchirsi? Beh, forse perché il male assoluto non esiste (né il bene assoluto). Forse è questo che il regista sta cercando di dirci.
Alla fine Parnassus riuscirà ad uccidere Tony. Non riavrà però la sua Valentina come l’aveva lasciata, e sarà costretto a cercarla. La troverà, ma, vedendola felicemente accasata, deciderà di non rientrare nella sua vita.
Insomma, un film con una morale, non svelata, forse, ma presente.

venerdì 19 marzo 2010

L'uomo che fissa le capre

Qualche volta George Clooney, tra un’Elisabetta Canalis e una gita sul lago di Como, si ricorda pure di saper recitare. E lo fa piuttosto bene quando interpreta questi ruoli demenziali. In L’uomo che fissa le capre è Lyn Cassady, un ex militare trasferito all’Esercito della Nuova Terra, l’ambizioso progetto degli Stati Uniti d’America che si propone di creare truppe in grado di combattere il nemico attraverso la pace e la Forza, quella stessa che anima le vicende di Guerre Stellari. Non a caso nel cast c’è anche Ewan McGregor, un timido giornalista, Bob, che arriva in Iraq in cerca di scoop. Qui incontra Lyn, il più promettente guerriero Jedi dell’Esercito della Nuova Terra, fondato da Bill Django, il quale, dopo una catartica rivelazione durante la guerra in Vietnam, si dà all’ascetismo e diventa un perfetto fricchettone provvisto naturalmente di maglietta sdrucita con su il simbolo dell’Om.
Bob accompagnerà Lyn nella sua missione segreta, che li porterà a compiere mirabolanti avventure che cominceranno nel deserto (molto divertente la scena del cono biodegradabile in grado di cuocere qualunque tipo di cibo in un tempo non ben precisato e l’incidente d’auto, avvenuto, dice Lyn, a causa dello Stato di Bilocazione in cui era entrato), durante le quali scoprirà che l’esercito hippie è in grado di disintegrare nuvole e uccidere capre innocenti con la sola forza del pensiero, combattere il nemico attraverso armi completamente riciclabili, ma anche attraverso lo Sguardo Scintillante, il Disincentivo Psichico (ovvero ficcargli in gola una penna o un qualunque oggetto appuntito che faccia zampillare il suo sangue) e il D-MAC, il tocco della morte (che ti colpisce, ma potrebbe provocare il danno anche a distanza di una ventina di anni).
Bravo anche Kevin Spacey, nei panni dell’antagonista cattivo, invidioso dei poteri straordinari di Lyn, che farà cacciare dall’Esercito, per crearne uno nuovo, gestito a modo suo, le cui armi sono state potenziate e migliorate. Alcuni esempi? Le api d’attacco oppure la mina con airbag.
È una commedia irriverente e ironica che si fonda sull’idea divertente, tipicamente stelle e strisce, della ricerca dell’arma letale che distruggerà il mondo.

Nine

Come ha ben detto Federico ieri sera, con un cast così era abbastanza difficile fare flop. Eppure il regista di Nine ce l’ha fatta. E ce l’ha messa davvero tutta.
Ispirato a 8 ½ di Fellini?! Io direi spudoratamente scopiazzato. E male, peraltro.
L’altro giorno qualcuno (mi pare Elisa), ha pubblicato un link ad un articolo che parlava delle vignette della Panini che copiavano Miyazaki e un utente si chiedeva dove stesse il confine tra l’omaggio e il plagio. Onestamente non lo so, ma credo che un omaggio sia banalmente un richiamo all’opera, una citazione, un’immagine simile, un concetto che riporta alle stesse emozioni. Il plagio è invece, in questo caso, quando si tenta di fare qualcosa, ma non si ha abbastanza estro (o talento?!) e quindi si copia.
Ho letto che il regista ha più volte specificato che il film non è un remake di quello di Fellini. Però l’idea è la stessa. Però i personaggi sono gli stessi. Però la storia è la stessa. L’unica differenza sta nel fatto che Nine è un musical e 8 ½ non lo era. Naturalmente sempre parlando di un capolavoro da una parte e un filmetto dall’altra (come disse Titina, «Non confondiamo la cacca con un’altra cosa!»).
Io non mi intendo molto di cinema, però 8 ½ l’ho visto e mi è piaciuto. La dimensione onirica che Fellini aveva rappresentato, forse per la prima volta (e che, intendiamoci, non aveva nulla di nuovo letterariamente parlando perché richiamava quel flusso di coscienza tanto usato dagli scrittori del ‘900), attraverso una crisi artistica, ma anche esistenziale, del protagonista, in Nine non c’è nemmeno lontanamente.
In 8 ½ il contrasto tra la moglie e l’amante è molto forte, anche in senso fisico. E infatti Fellini, che stupido non era, ha scelto di rappresentare la seconda con un’adattissima Sandra Milo, anche per l’opinione che il pubblico italiano aveva di lei. E alla povera Penelope Cruz, per quanto si sforzi e per quanto brava, una parte del genere non si addice per niente.
Sembra che la trama debba per forza incastrarsi tra un balletto e il successivo. E infatti è così, dal momento che il regista voleva fare un musical su una storia già scritta.
Comunque, secondo me, si aggiunge a tutto ciò il fatto che queste performance canore non è che siano poi stupende. In Moulin Rouge lo erano.
Infine ho letto che addirittura, oltre che la copia carbone (anche se il foglio originale si è spostato mentre lo ricalcavano) di 8 ½, il film è anche, in parte, tratto da un musical di Broadway. E allora, mio caro Rob Marshall, ti vorrei chiedere: tu, oltre a dare (immagino) un compenso da urlo a fior fiore di attori, che cosa hai fatto?
Credo che la tortura rappresenterebbe una valida alternativa alla visione di questo film: non vedetelo!

La rivincita delle bionde

Anche i film frivoli possono, a volte, insegnarci qualcosa.
È questo il caso de La rivincita delle bionde che racconta la storia della biondissima Elle Woods, volubile e ricca ragazza californiana, candidata più e più volte al prestigioso premio Miss Bikini dell’anno, reginetta della confraternita Delta Nu che si sente meglio, qualunque cosa accada, andando dall’estetista a farsi le unghie. Tutto scorre alla perfezione finché, quando meno se lo aspetta, il fidanzato, perché la considera troppo superficiale («Se diventerò senatore dovrò sposare una come Jackie non una come Marilyn»), la lascia nel bel mezzo di una cena… subdolamente, aggiungerei io (potevano almeno fini’ de magna’).
Così lei decide, nonostante le avversità e il parere contrario dei genitori («Tesoro, sei arrivata seconda al concorso “Miss Aria delle Hawaii”. Perché buttare all’aria tutto questo?»), di iscriversi alla facoltà di legge e si trasferisce in quel di Harvard insieme al suo guardaroba griffato e chihuahua munito di collana di Tiffany.
Elle riuscirà, proprio grazie alle sue conoscenze modaiole che tanto l’avevano intralciata, a farsi strada nel mondo forense. Verrà infatti coinvolta nella difesa di Brooke Windham, idolo ginnico delle ragazze, in un processo che vede quest’ultima colpevole dell’omicidio del marito. Eluderà l’accusa del giardiniere che diceva di aver avuto una relazione con Brooke dimostrando la sua omosessualità (scoperta perché lui sapeva che le scarpe che lei indossava erano della passata collezione di Prada) e dimostrerà che la vera colpevole dell’omicidio è la figlia stessa dell’assassinato poiché sosteneva di essersi fatta la doccia proprio dopo la permanente («Non è una regola fondamentale della permanente non bagnarsi i capelli entro le prime 24 ore per evitare di neutralizzare l’azione dell’ammoniaca?»).
È una commedia semplice e senza pretese, ma, dietro questa parvenza, qualche significato ce l’ha, sebbene trito e ritrito: la diversità, i pregiudizi, ecc. ecc. Però è divertente e alcune delle battute sono esilaranti, adattissime al genere.
Da parte mia posso dire che, oltre al bikini paillettato, quello che mi è piaciuto di più è stato il suo porta fazzoletti rosa peloso… quanto lo vorrei! Almeno quando devi fare una cosa triviale come soffiarti il naso lo puoi fare con stile!

Santa Maradona

E vabbe, il film non è un granché, anzi, fa abbastanza schifo.
Purtroppo racconta la nostra storia. Quella, cioè, della nostra generazione, di laureati che non riescono a trovare lavoro. Qui sono Andrea e Bartolomeo, rispettivamente protagonista e co-protagonista (perché a Stefano Accorsi je dovevano fa’ fa’ pe’ forza il personaggio principale) che non lavorano, non sono iscritti a nessuna lista di collocamento («Io lo direi con un po meno dorgoglio, no?») e che vorrebbero prolungare all’infinito la loro adolescenza.
Eppure la trama è inconsistente, la storia d’amore pessima, la colonna sonora a tratti psichedelica che te sembra de sta sulle montagne russe.
Una nota positiva c’è, ed è Bartolomeo Vanzetti, il coinquilino di Accorsi.
Completamente accidioso, passa l’intera sua giornata in accappatoio a righe, trastullandosi coi videogiochi in cui ammazza nazisti indifesi. Fa la pipì seduto perché è troppo pigro per farla in piedi. Dice di fare il critico letterario, ma in realtà prende le recensioni dei libri da un quotidiano locale siciliano, le scansiona e le manda al suo giornale, spacciandole per sue. È segretamente innamorato di Lucia, «la nostra amichetta del terzo mondo» (perché italo-indiana) e insulta in continuazione il suo fidanzato, «Quell’essere mitologico? Quello col corpo da uomo e la testa di cazzo?!».
Però è borioso e saccente e questo mi piace.
Non ve vedete il film, perché non ne vale la pena, ma voglio concludere con l’unico elemento degno di nota o, comunque, uno dei pochi. Una signora entra in libreria chiedendo informazioni su un misterioso testo e Bartolomeo si spaccia per il commesso. Sentite cosa le dice.

Signora: «C’è un libro che vorrei. Me lo ha consigliato una collega a scuola, però, mi dispiace, non ricordo l’autore. Il titolo era: La profezia dei celestini».
Bartolomeo: «La profezia dei celestini… eh… Dunque, signora, temo ci sia un piccolo problema di confusione sul titolo. Allora, lei si confonde fra La compagnia dei celestini, Stefano Benni, Feltrinelli e La profezia di Celestino, James Redfield, Corbaccio. […] Deve sapere che il libro di James Redfield, La profezia di Celestino, è un libretto new age del cazzo e noi qui i libretti new age del cazzo non li abbiamo.»
Andrea: «È vero, mai avuti.»
Bartolomeo: «Ha sentito il collega? Invece La compagnia dei celestini è un best-seller e noi qui i best-seller non li abbiamo, abbiamo solo libri di qualità, è chiaro?!»

Avrei sempre voluto dirlo io… magari salvando il povero Benni!

mercoledì 17 marzo 2010

Basta che funzioni

Sapete quando tutto vi appare chiaro e capite come sarà il vostro futuro?
Be’, io l’ho capito guardando questo film: sono assolutamente sicura che da vecchia sarò come il protagonista di Basta che funzioni.
Boris è un fisico in pensione, borioso e intollerante, costantemente attento a denigrare chiunque gli si faccia davanti e a soddisfare le sue paranoie cantando «Tanti auguri a te» per scacciare i germi quando si lava le mani.
In una New York dove Dio è solo un gay arredatore, tutto può accadere e infatti Boris accoglie in casa sua Melody, bionda ochetta del Sud, scappata di casa: i giorni diventeranno settimane, le settimane mesi e i mesi… matrimonio! Eh, sì, perché, per il potere del contrappasso, Boris sposerà una che non riesce nemmeno a capire che mestiere fa suo marito («…per poco non sono stato candidato per il premio Nobel», «E per che cosa? Miglior film?»). Il tutto condito da una di lei madre che, da bigotta campagnola, diventerà una raffinata artista, pienamente soddisfatta dal ménage à trois con i suoi due amanti e un di lei padre che svelerà al mondo, ma soprattutto a sé stesso, la sua finora nascosta omosessualità.
Chiedo venia, ma non avevo mai visto un film di Woody Allen e l’ho trovato semplicemente geniale, soprattutto perché non sono mai riuscita a spiegare cosa fosse l’entropia a uno che non avesse studiato fisica generale, allora lo lascio fare a lui: sostiene che sia «il perché non si riesce a rimettere il dentifricio nel tubo». Dubito che qualcun altro avrebbe saputo dirlo meglio.

lunedì 15 marzo 2010

Giù al nord

Io ooooooooodio i film francesi! Eppure questa volta mi sono dovuta ricredere. Giù al nord è un film, effettivamente francese, mio malgrado, che racconta la storia di Philippe, direttore di un ufficio postale in Provenza. Per assecondare la depressione della moglie, Julie, decide di fare domanda di trasferimento nel caldo sud della Francia. All’ennesimo rifiuto, dopo aver fatto carte false per andare in Costa Azzurra, si finge invalido, ma il trucchetto viene scoperto e gli viene inflitta una punizione peggiore del licenziamento: il trasferimento al nord, che, freddo e inospitale, dove gli abitanti parlano un dialetto incomprensibile (lo Chtis), lo aspetta.
E così Philippe parte, armi e bagagli, compreso il colbacco come Totò quando doveva andare a Milano, ma… il nord non è poi così male come dicono! Non riesce però a dirlo a sua moglie e allora mente, mente in modo spudorato. «E poi al nord bevono… eh sì, non hanno altro… al nord il sole sorge alle 11.30 (prima è buio) e alle 17.00… bum… cala giù tutto d’un botto». Alla fine, disperata per l’altrettanto disperata condizione di suo marito, dopo aver creduto che fosse anche lui diventato alcolizzato («Preferisco prenderti io stessa un bicchiere di alcol che vederti bere il mio Givenchy»), la moglie Julie lo raggiunge al nord dove scoprirà l’inganno. Non subito, però, perché gli amici di Philippe le dipingeranno il posto come un luogo inospitale dove si mangia carne di gatto, pane duro e si bevono fiumi di birra.
Commedia ironica e divertente sui luoghi comuni che tenta, e riesce, a sfatarli. Plauso alla traduzione che, nonostante quello che hanno detto alcuni critici che ritengono che in italiano sia solo una “commediola”, è riuscita a rendere molto bene l’intento del regista.
Vaccapuzza… voglio anch’io il cappello foderato di pelliccia polare… naturalmente finta!
 
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