lunedì 3 maggio 2010

Caterina va in città

Caterina, insieme alla sua famiglia, si trasferisce dal paesello alla grande metropoli, tra lo sgomento dei suoi parenti e i rimbrotti di Cesarino che dice che, sì, Roma è «una città molto valida dal punto di vista storico, ma troppo dispersiva e piena di str**zi».
Con un padre meschino, insoddisfatto del proprio lavoro, fallito nelle sue ambizioni letterarie e una madre più che sempliciotta, non c’è da stupirsi che la povera Caterina si vergogni di dire ai cosmopoliti compagni il nome del suo borgo di provincia, Montalto di Castro («Nord, nord ovest… tipo costa tirrenica», che un suo compagno non esita a commentare con l’esilarante battuta «Le freshche frashche»), dove le sole teste rasate sono «i miei cuginetti quando hanno preso i pidocchi alla scuola materna» e in cui l’unico centro sociale è Il Trombolone, frequentato da un «gruppo di pensionati simpaticissimi che organizzano tornei a scopone».
Tra comunisti e fascisti in miniatura, l’unica “non classificata” è proprio Caterina che, dopo un breve idillio con Margherita la zecca - quella che va in giro e fa cose, figlia di un famoso scrittore -, comincia a frequentare Daniela la pariola - quella che canta Faccetta nera, figlia di un uomo politico -, fino a che non la sentirà criticare il proprio abbigliamento («Sembra un’extracomunitaria») e il proprio padre.
Schifata dai cittadini e, dopo essere diventata cittadina, anche dai paesani («…come tutti quelli di Roma che si credono ‘sta ceppa solo perché stanno nella capitale e hanno due squadre in serie A!»), si consola ballando da sola mentre ascolta l’opera.
Amaramente il film si conclude con un caloroso abbraccio fra l'intellettuale di sinistra e il politico di destra perché, si sa, gli estremi, come in un cerchio, si rincontrano.

I ruoli sociali dei genitori delle compagne di scuola di Caterina, agli antipodi, possono facilmente essere traslati in quelli delle loro figlie, infatti i rapporti in aula, che rappresenta la società in piccolo, sono meri giochi di potere, ad emulazione di quelli dei propri cari che, se da una parte ricoprono cariche intellettuali e politiche al più alto grado, non riescono dall’altra a gestire la propria vita.
Una commedia amara che testimonia lo smarrimento degli adolescenti (ma anche no) alla ricerca della propria identità, ma anche il decadimento della società di oggi, divisa tra idee nettamente contrapposte e che gridano a gran voce di esserlo, che però alla fine inseguono l’unico, comune, scopo di affermare la propria superiorità. 
Il tutto raccontato piuttosto cinicamente e di certo non attenuato dal lieto fine in cui la protagonista, estranea a tutto ciò che la circonda, topo di campagna perduto nella vastità della metropoli, corona il sogno della sua vita.

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