Eddunque usciamo dalla fase uno, una dissipatio humani generis che secondo me manco Morselli aveva pensato così, e abbiamo finalmente smesso di sentire le campane a morto senza soluzione di continuità, pensando a quelli con una bassa ossigenazione del sangue che, si dice, fossero ancora coscienti nel momento della morte.
Quindi sì, usciamo dalla fase uno dicendo di essere profondamente cambiati, e invece non è cambiato un cazzo: gli stronzi sono rimasti stronzi, i deboli deboli, i forti forti e la maggior parte dei genitori stressati, solo che adesso non ci saranno più vecchi a prendersi cura dei bambini, perché la famiglia, che era diventata pure quella un luogo patogeno, ora si è assottigliata. E adesso siamo tutti più soli ché, dopo due mesi di solitudine, se ne somma un’altra che è ancora più dura da accettare, quella della diffidenza non detta, tenuta bene sotto la mascherina, eppure evidente da questo distanziamento sociale che è solo un ossimoro.
giovedì 14 maggio 2020
martedì 21 aprile 2020
L'opera al nero
Zenone, instradato
alla carriera ecclesiastica – l’unica possibilità di conoscenza che la sua
nascita illegittima gli concede –, si emancipa dalla dottrina impostagli per
spingersi nei recessi di medicina, alchimia e filosofia, campi che prenderanno
svolte diverse solo nei secoli a venire.
Se infatti le arti
magiche verranno progressivamente, e faticosamente, sostituite dal metodo
scientifico, Zenone qui si farà pioniere di una sperimentazione
avanguardistica, che però lo renderà vulnerabile a essere tacciato di eresia.
Vivrà quindi una
vita intera dedicata alla cultura, ma il suo viaggio si fermerà al nero, quando
la materia è marcescente e attende di essere trasformata in pietra filosofale,
ricalcando un inevitabile destino che però saprà, anche in punto di morte,
condurre senza che il flusso degli eventi decida per lui.
Se la scrittura
della Yourcenar è raffinata e precisissima, gli innumerevoli eventi a spasso
tra la storia, l’inesistenza di rapporti interpersonali e il carattere algido
del protagonista raggelano l’empatia che si potrebbe provare altrimenti per il
romanzo.
martedì 14 aprile 2020
La metamorfosi
S’è fatto un gran parlare sulla metafora della metamorfosi di Gregor Samsa, che lo costringe a un’abominevole claustrazione nella forma di scarafaggio.
Io propendo per il desiderio inconscio di sollevarsi dai doveri cui lo costringe l’economia familiare, peraltro (come si dimostra poi) perfettamente in grado di cavarsela senza i suoi sacrifici.
La progressiva perdita della parola si rivela essere solo un apparente annichilimento di umanità, che certamente abbandona il suo status sociale, ma non la capacità di pensiero.
Se infatti la sua condizione animale non lo risparmia alla crudeltà paterna, Gregor non esiterà all’idea dell’autodistruzione per sollevare i parenti dal disagio civile di avere un diverso vicino.
Mi chiedo come mai, di tutto quel florilegio di copertine che è stato fatto da che Gutenberg inventò la stampa, non si sia mai pensato a rappresentare sulla schiena dello scarafaggio una mela, che da Biancaneve a Steve Jobs, passando per Elena di Troia, c’ha fatto pensare un bel po’.
Io propendo per il desiderio inconscio di sollevarsi dai doveri cui lo costringe l’economia familiare, peraltro (come si dimostra poi) perfettamente in grado di cavarsela senza i suoi sacrifici.
La progressiva perdita della parola si rivela essere solo un apparente annichilimento di umanità, che certamente abbandona il suo status sociale, ma non la capacità di pensiero.
Se infatti la sua condizione animale non lo risparmia alla crudeltà paterna, Gregor non esiterà all’idea dell’autodistruzione per sollevare i parenti dal disagio civile di avere un diverso vicino.
Mi chiedo come mai, di tutto quel florilegio di copertine che è stato fatto da che Gutenberg inventò la stampa, non si sia mai pensato a rappresentare sulla schiena dello scarafaggio una mela, che da Biancaneve a Steve Jobs, passando per Elena di Troia, c’ha fatto pensare un bel po’.
sabato 11 aprile 2020
Meridiano di sangue
Non un cedimento
stilistico, nessuna misericordia per questo romanzo feroce dove un esercito
macilento di moderni crociati – un carnevale di apostoli del terrore capeggiati
dal realmente esistito Glanton – miete vittime in una sarabanda di sangue e
distruzione e morte, dove la natura primigenia osserva immobile gli
accadimenti.
E, in questo
continuum di violenza, la violenza stessa è trascesa nelle discettazioni
filosofiche del giudice Holden, gigante albino di suprema cattiveria che vuole
“snidare e denudare” qualunque creatura sulla terra per diventarne sovrano,
soverchiando uomini alla stregua di animali da macello.
Si può pensare a
un quadro mentre si legge? Se sì, io ho pensato alla “Battaglia di Anghiari” (e
“Guernica”, chiaramente, durante la scena del toro).
Sicuramente bello,
ma non all’altezza di quel capolavoro che è “Suttree”.
venerdì 10 aprile 2020
La montagna incantata
Come succedeva un
tempo per molti, moltissimi romanzi – penso, per esempio, a Moby Dick – la
trama principale non è nient’altro che un pretesto per interminabili
dissertazioni che trovano il loro climax nei conflitti peripatetici tra il
logico pensatore Lodovico Settembrini e il più ortodosso Leo Naphta, discorsi
tinti di passione, ragionati con una certa qual vicendevole astiosità per
accaparrarsi il parere del giovane iniziato, Hans Castorp, ora favorevole all’illuminismo
del primo ora al misticismo del secondo.
Ma, a parte questi
dissidi pedagogici su umanesimo, etica, progressismo, filosofia politica, La
montagna incantata è una lunga metafora sulla crescita intellettuale del
protagonista, affidata a un sanatorio dove sembra non ricevere alcuna cura se
non il tempo trascorso, che si rarefà come l’aria che si respira in quel
microcosmo popolato da malati, parrebbe, immaginari.
giovedì 9 aprile 2020
Invisible monsters
Invisible monsters è un’invettiva grottesca incentrata su una protagonista la cui sorte di vita di corpo le riserva una vita senza corpo, un vuoto mandibolare (metaforico e no) che – come dice Brandy – dovrà essere riempito dagli altri.
Così Kay, con la poca identità che l’estetica le concede, sempre in cerca di un riconoscimento sociale che non trova nemmeno nell’intimità familiare, vedrà in Brandy (evidente l’assonanza con Barbie, e nel nome e nei fatti) il riscatto che cercava.Un’allegoria del diverso che rielabora il mito di Frankenstein in chiave pop.
La scrittura scattosa, come se si fosse in uno shooting fotografico, per niente descrittiva (e pure qua echi dei nostri Cannibali), è una metanarrazione, si è in un romanzo-film, pieno di flashback e flashforward, anche e soprattutto per svolgere una trama che solo alla fine collegherà i personaggi.
Così Kay, con la poca identità che l’estetica le concede, sempre in cerca di un riconoscimento sociale che non trova nemmeno nell’intimità familiare, vedrà in Brandy (evidente l’assonanza con Barbie, e nel nome e nei fatti) il riscatto che cercava.Un’allegoria del diverso che rielabora il mito di Frankenstein in chiave pop.
La scrittura scattosa, come se si fosse in uno shooting fotografico, per niente descrittiva (e pure qua echi dei nostri Cannibali), è una metanarrazione, si è in un romanzo-film, pieno di flashback e flashforward, anche e soprattutto per svolgere una trama che solo alla fine collegherà i personaggi.
mercoledì 8 aprile 2020
Suttree
Trama men che
scarna, derubricata a mero sfondo di una scrittura che definire epica non è
esagerato.
Ogni cosa – pesci
gatto e puttane e case galleggianti e persino l’acqua – è marcescente, i
personaggi sono concrezioni luride e cenciose e lui, Byddy, un esule dai
sentimenti incartapecoriti, tranne che per Harrogate, lo stupratore di
cocomeri, la sola espiazione in tutto quel sudiciume.
Entra a pieno
diritto nella lista dei miei libri preferiti.
domenica 2 febbraio 2020
Carnaio
C’è
poi il fatto che quando tu hai scritto un romanzo su un reality show arrivato
al parossismo per rappresentare il depauperamento valoriale dei giorni nostri
non puoi non apprezzare qualcuno che ha scritto un romanzo su un’isola su cui
arriva un’onda umana i cui cadaveri vengono trattati alla stregua di una
qualunque materia prima per rappresentare il superamento dell’etica.
C’è
poi anche il fatto che quando tu hai scritto un romanzo in cui si omettono moltissime
virgole non puoi non apprezzare qualcuno che ha scritto un romanzo in cui si
omettono molte virgole.
C’è
poi infine il fatto che, in questo romanzo di Giulio Cavalli, la
disumanizzazione sta nell’uguaglianza dei corpi, tutti uguali, quasi identici,
si suppone allevati – ché anche le parole hanno il loro peso – allo stesso modo,
e cominciano i noi e i loro, e così il cimitero di quelli, che non hanno nemmeno diritto al pronome, e dunque un
sovranismo portato all’eccesso, i cui esponenti si ergono al di sopra della
legge, coniandone una nuova, senza contare che quella legge è il risultato di
un retaggio, sociale, culturale, con l’industria che si autoregolamenta, nell’immoralità,
in una prospettiva che non dovrebbe, ma dimentica l’umanità e quando il noi e
il loro perpetra, allora sì che la rabbia contro i già morti si sustanzia in assassinii
già compiuti, e l’ira dei cittadini di DF cresce parimenti a quella dei marosi,
per poi finire in una voluta di fumo tossico al profumo di lavanda.