lunedì 3 ottobre 2016

Kafka sulla spiaggia

Seguirà irriverente stroncatura ad mio completo libitum. Parole forti, eh, preparatevi.

Dopo la coraggiosa (e tediosa, per restare in rima baciata) lettura dei globalmente osannati quanto immeritatamente celebrati Norwegian Wood e L’uccello che girava le viti del mondo, posso dirlo: Haruki Murakami è la più grande bufala della letteratura postmoderna, e Kafka sulla spiaggia ne rappresenta l’emblema.
Il romanzo è ridondante, fitto di discorsi e fatti nonsense, oltre che di personaggi piatti e/o sbiaditi. Come il protagonista, vittima di un destino edipico (idea peraltro vecchia come il cucco – gli psicologi freudiani ancora ce campano sopra) che si suppone debba essere aleatorio ma in cui lui ricade ingiustificatamente, dando il la a una spiegazione forzata sull’incesto materno che glissa invece su quello con la sorella sedicente. Ah, manco a dirlo, si indulge – anche in questo caso ingiustificatamente – in un sesso amorale e ipertrofico.
Se questo non bastasse, abbiamo, signora mia, un’abbacinante descrizione della morte di un mostro à la Blob-il-fluido-che-uccide a 3.99 ché manco su Topolino.
Inoltre, Murakami sceglie di ostentare la sua padronanza della cultura occidentale (pagine e pagine di lezioncina sulla vita di Beethoven, di brani musicali che appartengono alla nostra tradizione, che dunque già conosciamo) piuttosto che celebrare quella della sua origine, che forse avrebbe avuto più appeal su un pubblico come il nostro (guarda tu Yasunari Kawabata, che personalmente non amo, ma ha preso il Nobel per la letteratura, proprio coglione non sarà).
Insomma, Kafka sulla spiaggia è l’ennesimo romanzo di formazione (quindi: che palle!), che si discosta un poco dai suoi predecessori poiché ha una sovrastruttura che unisce (ma secondo me sarebbe più corretto dire rabbercia) figure (gatto, pietra) e funzioni archetipiche (foresta), simbolismo e miti occidentali, in un viluppo in cui onestamente mancano solo i liocorni (o le anatre di Holden).
Una scrittura desolante, una vuotezza formale intollerabile per uno scrittore di cotanta (avvilente) popolarità, una sottomedietà stilistica di cui i dialoghi, insinceri e inattendibili, rappresentano l’apoteosi – vedi quelli con il Ragazzo chiamato Corvo, il quale già nel nome riassume la cacofonia di cui farà parte.
L’insignificanza che pretende di essere prosa.
Ma davero davero?

A proposito: Haruki Murakami, non Murakami Haruki, ché noi siamo italiani, e ’sto carabinierescamente prima-cognome-poi-nome No, No, grazie.

2 commenti:

Albertoraffaele ha detto...

Tendo ad essere complessivamente d'accordo con la tua visione di 'Kafka sulla Spiaggia', ma vorrei anche puntualizzare che la prosa di Murakami è davvero di una qualità altissima, la qualità di un 'miniatore' che sa dipingere uno per uno tutti i rami di una foresta nell'isola di Shikoku... Devi ammettere che la sua abilità nel tratteggio è eccezionale.

Chiara ha detto...

Nonnnò, non ammetto proprio niente, l'abilità nel tratteggio è quella nel disegno, per antonomasia, di un pittore, e, se intendevi metaforicamente parlarne come se fosse stato bravo, be', no, poprio no, è come se uno scerittore VERO dipingesse e Murakami, tentando di imitarlo, facesse il disegno di un bambino, peraltro manco uno prodigio!

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