È
ad Amstetten, nella civile e insospettabile Austria, che si consuma «il più
complesso delitto contro l’essere umano»: Elisabeth Fritzl, non ancora
maggiorenne, viene segregata dal padre Josef in un bunker antiatomico da lui
stesso costruito sotto le fondamenta di casa. Ne uscirà, avvizzita e rassegnata
– perché «perfino del dolore ci si dimentica» –, solo dopo ventiquattro anni.
Chiudendo
fuori dalla porta il mondo «di sopra» e con esso – per un tempo che sarà sempre
– il suo cielo di una «serenità patetica», Elisabeth sarà relegata dal
padre-aguzzino in una gabbia, una «voliera perfetta in cui mettere al riparo
l’uccellino più fragile», dove le continue violenze le ricacceranno «dentro
anche tutte le speranze di non essere toccata». Annientata nel corpo e
nell’animo, Elisabeth deciderà di vivere, perché non saprà morire.
È
da qui che si muove Sortino che fa, con uno stile misurato ma incisivo, di ogni
frase una metafora, di ogni parola immagine. La sua è un’Elisabeth che, in un
perenne «stadio di mezzo tra il dileguarsi e l’esserci per forza», si dissolverà
nel grigiore della sua prigione «assumendo le sembianze del dolore», che non
vorrà ascoltare lo scorrere del tempo, che giocherà con gli elettrodomestici – i
suoi unici compagni –, che partorirà sette figli, che vedrà uno di loro morire
e che si rassegnerà infine al suo destino: un oggetto che non potrà mai
brillare frontalmente, ma mostrare la sua luce solo «nel taglio che lo separa
dal mondo».
Con
una maturità insolita per un libro d’esordio, l’autore diventa perno di un
equilibrio che non pende mai verso l’ovvia descrizione del mostro ma ne
racconta la normalità e la, sebbene inimmaginabile, capacità d’amore.
Un
romanzo insostenibilmente vero, un viaggio in un umido girone dantesco che
diventa realtà, un abisso di carne, umori e cemento.
Da LSC Mag di luglio 2012.
1 commenti:
grazie.
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