- Giura solennemente di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità.
- Ma: ogni cosa dirai potrà essere usata contro di te.
- Non sei colpevole fino a prova contraria. Ma la prova la decido io.
- Non chiederti «petto o coscia?» a meno che tu non sia il Babbo Natale di Quattro salti in padella Findus.
- Dopo i trenta, io compio trent’anni.
- Le scarpe che compro sono sempre troppo poche.
- Nessuno può mettere Baby in un angolo.
- Il ragazzo non si applica.
- Credevo che fossi diverso.
- Se ho il ciclo: «Alza le mani e allontanati molto lentamente.»
- Puoi guardare tutte le donne a tette al vento che vuoi, purché non mi disturbi mentre prendo il sole.
- Non sporcare: il gatto non lo fa. E tu sei dotato di braccia e pollice opponibile.
- Sforzati di ricordare. Le battute dei film non valgono.
- Ogni mia domanda esige una risposta. Puoi compare una vocale.
- Se ti chiedo: «Sono grassa?» devi rispondere: «No». Tu invece hai la pancia.
- Tanto, alla fine, è colpa tua.
venerdì 27 luglio 2012
Alcune, semplici, regole per gli uomini
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lunedì 9 luglio 2012
Elisabeth
È
ad Amstetten, nella civile e insospettabile Austria, che si consuma «il più
complesso delitto contro l’essere umano»: Elisabeth Fritzl, non ancora
maggiorenne, viene segregata dal padre Josef in un bunker antiatomico da lui
stesso costruito sotto le fondamenta di casa. Ne uscirà, avvizzita e rassegnata
– perché «perfino del dolore ci si dimentica» –, solo dopo ventiquattro anni.
Chiudendo
fuori dalla porta il mondo «di sopra» e con esso – per un tempo che sarà sempre
– il suo cielo di una «serenità patetica», Elisabeth sarà relegata dal
padre-aguzzino in una gabbia, una «voliera perfetta in cui mettere al riparo
l’uccellino più fragile», dove le continue violenze le ricacceranno «dentro
anche tutte le speranze di non essere toccata». Annientata nel corpo e
nell’animo, Elisabeth deciderà di vivere, perché non saprà morire.
È
da qui che si muove Sortino che fa, con uno stile misurato ma incisivo, di ogni
frase una metafora, di ogni parola immagine. La sua è un’Elisabeth che, in un
perenne «stadio di mezzo tra il dileguarsi e l’esserci per forza», si dissolverà
nel grigiore della sua prigione «assumendo le sembianze del dolore», che non
vorrà ascoltare lo scorrere del tempo, che giocherà con gli elettrodomestici – i
suoi unici compagni –, che partorirà sette figli, che vedrà uno di loro morire
e che si rassegnerà infine al suo destino: un oggetto che non potrà mai
brillare frontalmente, ma mostrare la sua luce solo «nel taglio che lo separa
dal mondo».
Con
una maturità insolita per un libro d’esordio, l’autore diventa perno di un
equilibrio che non pende mai verso l’ovvia descrizione del mostro ma ne
racconta la normalità e la, sebbene inimmaginabile, capacità d’amore.
Un
romanzo insostenibilmente vero, un viaggio in un umido girone dantesco che
diventa realtà, un abisso di carne, umori e cemento.
Da LSC Mag di luglio 2012.
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venerdì 6 luglio 2012
Madeleine dorme
Se fosse una maschera, sarebbe Arlecchino. Colorata e
sardonica e barocca. Certo è che questo romanzo di Sara Shun-lien Bynum – che
ci era sfuggito, a noi italiani… fortuna Transeuropa – è davvero capace di
affascinare. Anche me che, dall’alto della mia ingiustificata spocchia,
promuovo solo le fatiche di scrittori morti da almeno una trentina d’anni. E
invece l’autrice è viva e vegeta. E pure giovane.
Madeleine dorme è un romanzo dai contorni sfocati
in cui una compagnia di personaggi improbabili si sussegue in un’atmosfera
fiabesca, come fiabesco è il linguaggio sincopato con cui viene raccontata. Una
fiaba dark, però, alla Tim Burton, piena di immagini che ricordano un filmino in
bianco e nero anni ’20.
Tante le contaminazioni: dal già citato Tim Burton
all’Alice che ci hanno visto tutti (tranne me, eccetto che per questo “quasi
teatro dell’assurdo”), da Calvino alla Bella Addormentata.
Protagonista: una ragazzina che sogna tutto il tempo. La
stessa che, sveglia, picchia il sedere di Monsieur Pujol per il sollazzo di una
ricca vedova e che, dormiente, langue indisturbata favorendo le marmellate di
pere della madre.
Sogna di Madame Cochon, una grassa signora
scientificamente attenta ai propri bisogni a cui spuntano le ali, di Charlotte,
che pian piano si trasforma in una viola da gamba, di Adrien, che ha l’arduo
compito di cogliere con la fotografia l’espressione dei malati, e dello scemo
del villaggio, che diventa per lei un’esplorazione sessuale che trova una
punizione che segnerà il resto della sua vita.
Tanti gli attori di questa meravigliosa storia. Personaggi
in cui spicca marcato il contrasto: più di tutti quello del compassatamente
educato Le Petomane, che però fa le puzze per mestiere. E poi uomini e
donne-animali rinchiusi in un luogo in cui sembra essere Madeleine stessa,
metaforicamente e fisicamente.
Un romanzo di immagini indistinte ma colorate, dai confini
evanescenti che mescolano il racconto del sogno, il sogno stesso e la realtà.
Madeleine dorme rappresenta qualcosa di diverso non
perché confonde realtà e fantasia, non perché racconta di personaggi assurdi, non
per il modo in cui lo fa, ma perché ci chiede di pensare come non siamo
abituati a farlo. Nei confronti della nostra di realtà, di quella di Madeleine,
della moralità, della sessualità e persino dell’amore che, per una proprietà
quasi transitiva, si trasmette da un uomo all’altro.
Non esito a dire che è il miglior libro di uno scrittore
vivente (non dico contemporaneo perché c’è anche Infinite Jest) che abbia letto quest’anno. Racchiude in sé tutto ciò
che prediligo in un romanzo: la scrittura ricercata, le situazioni (anche
paradossali), ma soprattutto la trama non perfettamente definita (ha un senso
per me e uno diverso per un’altra persona) e che è la stessa ragione per cui mi
piace più leggere libri che guardare film: perché leggere un libro significa
immaginare, mentre in un film qualcuno ha scelto per te, e non sarà mai come
quello che tu avresti scelto per te.
Dunque quando il sipario si chiude, alla fine dello
spettacolo, ti chiedi se davvero sia stato tutto un sogno. Ma, in definitiva, è
così importante?
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