Dopo
la coraggiosa (e tediosa, per restare in rima baciata) lettura dei globalmente
osannati quanto immeritatamente celebrati Norwegian
Wood e L’uccello che girava le viti
del mondo, posso dirlo: Haruki Murakami è la più grande bufala della
letteratura postmoderna, e Kafka sulla
spiaggia ne rappresenta l’emblema.
Il
romanzo è ridondante, fitto di discorsi e fatti nonsense, oltre che di
personaggi piatti e/o sbiaditi. Come il protagonista, vittima di un destino
edipico (idea peraltro vecchia come il cucco – gli psicologi freudiani ancora
ce campano sopra) che si suppone debba essere aleatorio ma in cui lui ricade ingiustificatamente, dando il la a una
spiegazione forzata sull’incesto materno che glissa invece su quello con la sorella
sedicente. Ah, manco a dirlo, si indulge – anche in questo caso ingiustificatamente – in un sesso
amorale e ipertrofico.
Se
questo non bastasse, abbiamo, signora mia, un’abbacinante descrizione della
morte di un mostro à la Blob-il-fluido-che-uccide
a 3.99 ché manco su Topolino.
Inoltre,
Murakami sceglie di ostentare la sua padronanza della cultura occidentale (pagine
e pagine di lezioncina sulla vita di Beethoven, di brani musicali che
appartengono alla nostra tradizione, che dunque già conosciamo) piuttosto che
celebrare quella della sua origine, che forse avrebbe avuto più appeal su un
pubblico come il nostro (guarda tu Yasunari Kawabata, che personalmente non amo,
ma ha preso il Nobel per la letteratura, proprio coglione non sarà).
Insomma,
Kafka sulla spiaggia è l’ennesimo
romanzo di formazione (quindi: che palle!), che si discosta un poco dai suoi
predecessori poiché ha una sovrastruttura che unisce (ma secondo me sarebbe più
corretto dire rabbercia) figure (gatto,
pietra) e funzioni archetipiche (foresta), simbolismo e miti occidentali, in un
viluppo in cui onestamente mancano solo i liocorni (o le anatre di Holden).
Una
scrittura desolante, una vuotezza formale intollerabile per uno scrittore di cotanta
(avvilente) popolarità, una sottomedietà stilistica di cui i dialoghi,
insinceri e inattendibili, rappresentano l’apoteosi – vedi quelli con il Ragazzo
chiamato Corvo, il quale già nel nome riassume la cacofonia di cui farà parte.
L’insignificanza
che pretende di essere prosa.
Ma
davero davero?
A
proposito: Haruki Murakami, non Murakami Haruki, ché noi siamo italiani, e ’sto
carabinierescamente prima-cognome-poi-nome No, No, grazie.
2 commenti:
Tendo ad essere complessivamente d'accordo con la tua visione di 'Kafka sulla Spiaggia', ma vorrei anche puntualizzare che la prosa di Murakami è davvero di una qualità altissima, la qualità di un 'miniatore' che sa dipingere uno per uno tutti i rami di una foresta nell'isola di Shikoku... Devi ammettere che la sua abilità nel tratteggio è eccezionale.
Nonnnò, non ammetto proprio niente, l'abilità nel tratteggio è quella nel disegno, per antonomasia, di un pittore, e, se intendevi metaforicamente parlarne come se fosse stato bravo, be', no, poprio no, è come se uno scerittore VERO dipingesse e Murakami, tentando di imitarlo, facesse il disegno di un bambino, peraltro manco uno prodigio!
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