Arrivo
tardi – come Trenitalia (ma l’importante è partecipare) – sulla dibattuta
questione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan.
Si
è tanto detto sulla possibilità della canzone come declinazione del più grande
concetto di letteratura e non sarò certo io la baciapile di turno pronta a
negare la dignità delle svariate forme espressive della parola.
L’anamnesi
della letteratura parla chiaro, e ci dice che siamo partiti dall’ode per
arrivare al romanzo odierno, compreso il non-fiction, come piace tanto dire
agli americani, passando per il componimento dove il confine tra prosa e poesia
diventava labile.
Personalmente,
poi, considero alla stregua del romanzo anche il fumetto – un esempio su tutti:
Watchmen. (Diverso invece il caso del
film che procede per immagini, forma
predominante del narrato e non parallela alle parole, come il fumetto.)
Ma
più di tutto questo, c’è un sillogismo aristotelico inoppugnabile per cui
canzone = poesia, poesia = letteratura, da cui il corollario canzone =
letteratura.
Dunque
tutto si riduce non al mezzo di declinazione della parola, ma, più che altro, a
ciò che si fa con essa. Si può anche parlare della danza di accoppiamento dell’uccello
del paradiso. O di una cipolla da regalare per San Valentino (eh sì, guarda tu
che te crea Carol Ann Duffy in Valentine).
Piuttosto,
quello che mi preme sottolineare è che la canzone gode – ahimè – di un supporto
mediatico che la letteratura in forma scritta non vedrà mai. (Per
capirci, se Dylan qualcuna che si toglierebbe il reggiseno strappandosi i
capelli ancora la trova, confido nel fatto che Philiph Roth non riceverebbe manco
un selfie porno da una fan affetta da disturbo della personalità.)
Perché,
diciamocela tutta, la massa è avvezza all’arte, sì, ma se è un po’ più prosaica
di “Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta” è meglio (poi quel “Pelide”
richiede uno sforzo di conoscenza della mitologia greca, un sottofondo non
detto, che poi tocca studiare).
Perciò,
mi chiedo, per quale recondito motivo insignire del Nobel un cantautore sostenuto
da apparati mainstream molto più forti dei canali attraverso i quali si muovono
il romanzo, la poesia, il fumetto e compagnia bella? (Certo, poi meglio Dylan
che Murakami: ma non diciamo sciocchezze, per favore.)
E,
ancora, perché non buttare al secchio la regola secondo cui non si può
scegliere un letterato morto? Perché non gli si possono consegnare fisicamente quei
novecentomila euro e rotti?! (A questo proposito avrei qualcosina da dire ai
tizi dell’accademia svedese a proposito del merito di Wallace, ma pure –per un
po’ di sano sciovinismo che non fa mai male – sull’Umberto Eco nazionale, senza
poi nemmeno nominare lo straordinario Gadda perché capisco che il mondo non è
ancora pronto per la sua “sovrana coscienza dell’impossibilità di dire: Io”.)
Insomma, qualcun altro bravino a cui dare il premio ce
l’avevamo, vedi il già citato Philiph Roth o la por’anima de Don DeLillo, che
forse la sera della premiazione avrebbero pure rinunciato al campionato di
rutto libero come invece Bob sembra non aver la più pallida intenzione di fare.