«Chiunque
giudichi Foster Wallace un genio letterario dovrebbe essere incluso nel
Pantheon degli imbecilli». Questo scrisse Bret Easton Ellis del Più Grande
Scrittore Di Tutti I Tempi*.
Sapevo di
questa infelice uscita, ma l’ho ignorata fino a quando, punta sul vivo, ho
deciso di leggere il sedicente capolavoro di Ellis, American Psycho. Perché per combattere il male bisogna conoscerlo.
Passo dunque
a analizzare la serie di errori clamorosi dell’amato Bret.
Spoiler
follows, come scriveva Aaron Swartz sul suo blog, frase che adotterò d’ora in poi, ché mi caratterizza
molto.
Innanzi
tutto, fino a un terzo del libro ci sono solo sminchionate varie sul benessere
finanziario dei personaggi, descrizioni prolisse del loro abbigliamento firmato
– simbolo dunque di una dipendenza tossica dai brand –, degli esosi pranzi nei
ristoranti à la page
(come ripete Ellis in un mantra snervante), delle sortite in palestra per
mantenersi belli belli belli in modo assurdo.
Suppongo tutto
questo sia una critica costruttiva** al consumismo americano, concetto che
Wallace aveva già espresso (molto meglio, s’intende) in Infinite Jest descrivendo non già banalmente facoltosi ragazzotti
che possono comprare tutto, bensì una società dove l’acquisto indiscriminato di
beni (inutili, ma indispensabili grazie al lavaggio del cervello della
pubblicità) è arrivato al parossismo e le multinazionali sono in grado di
comprare anche il tempo (ma non divago, ho già detto tutto qui).
Dopo questo
martirio e una serie quasi infinita di parole e concetti espressi fino alla
nausea, capiamo finalmente che tutto ciò è servito a dire che il protagonista è
sì ricchissimo, bellissimo e superficialissimo (tutti superlativi), ma è pure
un serial killer (e qui va citato l’unico merito del romanzo, insieme forse ai
capitoli dedicati agli album musicali, ossia l’ironizzare sulle psicosi del
personaggio, esplicitamente affermante le sue efferatezze durante telefonate
amicali, ordinazioni di piatti succulenti eccetera).
Ora, Bret,
vorrei spiegarti un concetto molto banale, ma efficace, a mio parere. La
letteratura è quella cosa che ti permette di scrivere un libro anche non
dicendo tutto tutto tutto. Quando scrivi un dialogo, non lo scrivi mica come avverrebbe
in realtà, dicendo tutto tutto tutto, tipo buongiorno-come-stai?, bene-grazie-e-tu?
Passi subito al dunque. Perché sennò il lettore si stressa e poi dice che il
tuo non è un romanzo cult come hai fatto credere a tutti non si sa bene come,
ma solo un noioso libercolo con manie di onnipotenza, specie poi se ti permetti
di criticare autori più bravi di te. Ci aizzi, a noi lettori-di-autori-più-bravi-di-te,
capisci?!
Così, Bret, era
molto meglio se avessi evitato le centinaia e centinaia di pagine di
descrizioni griffate per farci entrare nella psicologia del personaggio. L’avevamo
capito anche alla ventesima, di pagina.
Dunque,
Bret, io volevo dirti che sono contenta di stare nel Pantheon degli imbecilli,
perché è molto più à la page del
tuo inferno di stronzate.
* Omaggio
personale a DFW, manco tanto originale, a dire la verità.
** Sia chiaro che lo dico
in senso del tutto ironico e anche un po’ presaperculescamente.