e insomma pare che
ho scritto un romanzo, tutto destrutturato che non se capisce gnente, ma,
secondo me, che sono l’autrice e quindi non posso dirlo, ci stanno pure certi
bei pezzi, tante tante citazioni, ma mica per spocchia, come qualcuno potrebbe
pensare, ché io parlo e soprattutto penso per citazioni, che poi mi dicono che
è un esercizio di stile e in parte è vero, epperò non ricordo quale autore
diceva che il romanzo è solo la punta dell’iceberg e sotto ci stanno un sacco
di cose e, cavolo, c’aveva ragione, per cui, sì, è un esercizio di stile ma un
pensiero lo scrivo a flusso di coscienza, una lettera la scrivo come una lettera,
un teorema lo scrivo coi grafici e se penso e nel frattempo suono il piano io
sotto alle parole ci voglio la musica, e quindi ci stanno cose che è meglio
dirle in una forma piuttosto che nell’altra e la costruzione diventa
artificiosa solo se si fa fatica a farla, e poi il dialetto è la ricchezza di
un popolo, guarda accabadora l’arminuta creuza de mä ragazzi di vita e tutto
pasolini, e quindi imbastardire il dialetto come camilleri, come dice qualcuno,
meglio che lo fa camilleri che lo sa fare, c’avessi provato io non so se e come
ci sarei riuscita, per cui sono contenta e orgogliosa, poi il libro, come oggetto,
è bello, la copertina l’ha fatta mia sorella e è bellissima (anche se la
citazione delle nuvole di infinite jest non l’apprezzo e l’avrei preferita
bianca come l’aveva disegnata la prima volta) e in quanto a diffusione lo
sapevo, non se lo leggerà nessuno, ché toccherebbe scriversi i personaggi,
ragionare sulla storia e sui suoi perché, e in quanto a promozione castelvecchi
poca cosa e a ben ragione, ché dal 1947 al 2018 è stata nei dodici finalisti
allo strega una volta sola e indovina quest’anno chi c’è tra la cinquantina di
proposte degli amici della domenica?