Farcela da soli è
un concetto usato piuttosto accazzo, specialmente dalle donne che, ancora e
ancora, dicono di farcela da sole e poi dietro una grande donna di solito c’è
un uomo con grandi soldi oppure un uomo con pochi soldi che però guadagna lui e
si usano in due quindi io a volte vorrei trovare un milionario che mi mantenga
e non lavorare e leggere e scrivere e guardare Real Time tutto il tempo e
magari scrivere un romanzo, però poi, oh, per esempio guardo ClioMakeUp e penso
che il successo è arrivato col marito che l’ha portata a New York e mentre lui lavorava lei stava a casa a truccarsi e allora ha pensato di fare in italiano quello
che le youtuber ammericane facevano in inglese e si è truccata in italiano e,
oh, è andata bene e quindi, oh, brucia dirlo, ma forse meglio Chiara Ferragni, che
s’è messa dentro una vasca da bagno con l’insalata, ma almeno da sola, oppure
Carrie Bradshaw, che pure scrive, però c’è che io trovo difficile distinguere
il ruolo semantico dell’attore dal personaggio e ho visto Hocus Pocus prima di Sex and
the City e chi l’avrebbe mai detto che una strega avrebbe solcato le strade
di Manhattan calzando un paio di Jimmy Choo, quindi va bene la strega, ché mi
ci ritrovo parecchio, però poi io a scrivere di amorucoli no e poi c’è che quando
ascolto Pagina 3 e Nicola Lagioia legge questo articolo qui di
quando Sergio Garufi incontra per la prima volta Borges io, così, senza sapere
perché, piango in macchina come una stupida e allora, se proprio proprio devo
scrivere cazzate, che almeno siano quelle della mia rubrica Mente Cattiva su
Lsc Mag, che non legge nessuno, manco
i miei fidanzati dell’epoca, all’epoca. E, insomma, avessi sposato un milionario,
chissà, avrei saputo come truccarmi.
domenica 23 settembre 2018
venerdì 21 settembre 2018
L’Iperboria® del premio Streghe®
Ora che non c’è
più Baricco in televisione a farci distinguere il bene dal male, ognuno si
regola come può, e io e i miei amici più spocchiosi mangiamo eventi a base di
libri.
Essendo io addetta
in pectore alla pulizia dei cessi di Liberi sulla Carta, carica ancora non
ufficiale che mi fregio di possedere dall’edizione 2016, vorrei spendere due
parole sulla nostra fiera.
Abbiamo cominciato
inconsapevoli del successo come una Kate che organizzava il suo matrimonio non
sapendo che poi tutti avrebbero guardato il culo di Pippa e poi siamo diventati
Pippa, dunque vorrei ricordare, superpartesmente, che qui da noi sono arrivati
Luis Sepúlveda e Nanni Moretti, per citarne due, e ci saranno ricchi scrittori e
cotillons nell’edizione di quest’anno che non sarà certo da meno. Se vai al
festivaletteratura di Mantova sarà come mangiare minestrina col dado dopo aver
assaggiato l’aragosta, che tra l’altro considera l’aragosta, poi fai tu.
Nel frattempo, al
Circolo Pickwick portiamo avanti una reading challenge, come la chiamerebbero
gli italiani col profilo Instagram in inglese (aiutiamoli a casa loro):
quaranta libri da leggere nel corso dell’anno, ognuno appartenente a una
categoria diversa.
Come young adult, personalmente
ho scelto Twilight, che, lo vorrei
dire a tutti, si può leggere, si può, ma solo pensando forte forte a Cedric
Diggory, altrimenti va bene per gli origami. Dalle stelle alle stalle, L’ingegnere in blu (romanzo con
protagonista che ha il tuo stesso lavoro), un esercizio di stile troppo stile:
non ho capito la metà delle parole, l’altra metà era in un’altra lingua; poi Rosemary’s Baby come horror, ma chiamarlo
horror per far sopravvivere il genere sarebbe accanimento terapeutico, Il mago di Terramare come volume di una saga,
dall’amaro sapore di una raccolta dei bollini della Coop: se non ne hai
abbastanza te tocca l’asciugamano infeltrito, continuando con un rassicurante
Kafka (America) come libro incompiuto,
e, passando per svarioni erotically correct come Paura di volare, siamo arrivati all’autore scandinavo e quindi all’Anno della lepre cui ho detto no, come
libro, se poi parliamo della copertina sì e sì anche al formato (Iperborea ha
fatto la più grande operazione commerciale-grafica cui io abbia mai assistito),
solo che io l’ho comprato in e-book e non lo posso neanche riciclare per
Natale. Un’incursione non prevista con Le
stanze dell’addio – che non ha preso il preso il premio Strega, figuriamoci
il nostro premio Streghe®, ché noi non abbiamo il cuore tenero come
gli accademici della Crusca che si sono fatti intenerire da aggettivi come petaloso – ci ha fatto arrivare alle Rane di Mo Yan, che praticamente parla
di comunisti che mangiano bambini, ma a me, boh, leggere orientali mi lascia
sempre con la fame come quelli che vanno all’All you can eat sushi: dopo cena
stanno tutti dallo zozzone a magna’ il panino colla porchetta.
Non poteva mancare
Infinite Jest, che ha una categoria a
parte e che è stato proposto dalla sottoscritta, come noto accanita fan del
compianto David Foster Wallace, bonanima, che si è fatta infinocchiare, come
quei poracci che credono ai titoli in corpo 20 che dicono che il premio Strega
l’ha vinto finalmente una casa editrice indipendente, andando al Rave Foster
Wallace.
Organizzato da
Stefano Bartezzaghi, pensavo l’evento come un raduno per fondamentalisti
infinitejestiani come me che hanno pensato a una copertina alternativa del
romanzo (ché nulla si crea, nulla si distrugge, tranne le nuvole dalla Little,
Brown a Fandango e Einaudi) e invece si è rivelato solo un immenso Truman Show
interpretato da attori il cui livello di drammaturgia sfiorava, ma non
arrivava, a quello della mia compagnuccia delle elementari che faceva Dorothy
nella recita del Mago di Oz, con un
pubblico non pagante di fidanzato dell’attore quello, figlia dell’attrice
quell’altra, questo accanto a me che non ha nemmeno cominciato il romanzo, per
non parlare di chi l’ha abbandonato, e quest’altro che preferisce ommioddio Murakami,
colle zanzare che ci pungono che manco all’Isola
dei famosi e nemmeno una Millennial Fizzy a dissetarci la gola riarsa, figuriamoci
la baklava della signora Clarke. Dovevo capire tutto dalla prefazione della Scopa del sistema.
Fortuna che ci
siamo rifatti col salone del libro di Torino, cominciando con una conferenza in
cui qualcuno – poiché tocca sempre decidere a cosa consacrare la propria vita, e
meno male che ci sono questi che hanno deciso per l’elfico e il runico – ci ha
spiegato che il quenya è una lingua oramai a uso esclusivo dei più colti e è
stata soppiantata dal sindarin.
Abbiamo poi
continuato con un simposio sull’uso dell’italiano: Francesco Sabatini, ottantasette
anni di pensieri ordinati in lemmi al-mz, Vittorio Coletti, l’altra parte del
dizionario, e Luca Serianni, moderati da un ubiquitario Giordano Meacci (che
doveva vincere lo Strega 2016, assolutamente), a discutere sulla salvaguardia
dei termini in estinzione e l’abbandono del toscano codesto. Se solo sapessero che da noi è invalso l’uso degli avverbi
di luogo dècco, dèsso, dèllo! Ma,
tranquilli, ci siamo noi, wweffini di Sabina, a portare alto lo stendardo del
dialetto, sennò si fa la fine del quenya.
Ultimo giorno
dedicato alla razzia dei libri ché, si sa, l’ultimo giorno c’è sempre almeno il
15% di sconto e tu mi vuoi vendere Settanta
acrilico trenta lana a prezzo pieno, ragazza di e/o, dunque arrenditi e
alza le mani molto lentamente da quel romanzo e nessuno si farà male, e lo so
che quest’anno anche voi vi siete dati al fantasy, ma, sai, a me la letteratura
di genere non mi piace, mi piace solo la letteratura e infatti adoro Il signore degli anelli e leggo
Camilleri. Perciò, uno sguardo veloce al catalogo del prossimo stand coi nuovi,
allettanti formati, ma noi passiamo avanti, perché voi Iperborea, noi Iperboria®.
Grazie a Marta e
Federico per aver inventato i marchi di fabbrica di questo articolo.
Da LSC Mag di settembre 2018