mercoledì 21 dicembre 2016

Letterina di Natale 2016



Caro Babbo Natale,
ti spiego un attimo la situazione qui da noi ché devo fare qualche pensierino.
 
Cominciamo con una notizia che arriva da oltreoceano. Il nostro Lapo Elkann, a New York per molestare qualche trans nell’esercizio delle sue funzioni, finisce le banconote che arrotolava per tirare il talco dell’allegria di Pollon. E che fa? Invece di farsi ricaricare la PostePay, pensa bene di simulare un rapimento per riscuotere il riscatto.
 
Nel frattempo in Italia c’era un importante referendum. Si trattava di rispondere a un quesito, posto in maniera chiara e veritiera, su piccoli cambiamenti alla nostra Costituzione. Niente di complesso, una cosa a crocette. Pare che abbia vinto il no, ma secondo me hanno contato male, per via delle matite cancellabili.
 
Ci siamo impegnati tanto, noi italiani, ma, si sa, allo scritto non rendiamo. Andiamo meglio all’orale, guarda tu Madonna e come si sarebbe prodigata a favore degli elettori di Hillary. La quale, d’altronde, qualcosa di tradizioni orali alla Casa Bianca la sa.
 
Per questa storia del referendum, il nostro presidente del Consiglio, dopo mille intensi giorni, si è dimesso. È tornato, solo e emarginato dal gruppo come Melanie C, al suo paese, a arrostire sul fuoco marshmallows.
Ma tutt’a posto al Governo, eh, ché è rimasto il tarocco cinese del precedente. Dunque, invece di mandare gli incapaci a intrecciare cesti di rafia o raccogliere lavanda per confezionare profumini da armadio, sono restati gli esponenti migliori. Soprattutto le quote rosa.
Prima, per crearti un’onorata carriera da ministro, dovevi avere all’attivo un paio di calendari nuda o al più dire qualche stronzata su un tunnel immaginario da Ginevra al Gran Sasso. Oggi no. Oggi serve di più.
E non parlo della laurea, come la Cepu di Valeria Fedeli. Bisogna inventarsi qualcosa di diverso.
Per questo la Boschi si è impegnata in un conflitto di interessi con Banca Etruria. E noi ce la teniamo, perché nessuno può mettere Baby in un angolo.
La Lorenzin, invece, ha optato per una roba che ha chiamato Fertility Day, una campagna pubblicitaria alla stregua del Ventennio fascista inneggiante alla fertilità.
A noi over 35 senza figli, però, non è piaciuta. Ci siamo sentite un po’ piccate, ché colle prospettive che abbiamo oggi, al massimo possiamo aspirare al posto rosa al parcheggio di Ikea.
Insomma tutti a prendere per l’orecchio la ministra. Ma lei non c’entrava. Lei, quella locandina, non l’aveva mica approvata così. Alla domanda a piacere, invece di avvalersi della facoltà di non rispondere o, al più, consultare Yahoo Answers, ha mostrato a tutti le prove della sua innocenza. Sbiadite.
 
Qui a Roma pure un disastro: la nostra sindaca Raggi prima non riusciva a fare una giunta, e poi, una volta fatta, i componenti si sono dimessi così velocemente manco qualcuno avesse fatto una puzzetta.
 
Infine c’è stata l’assegnazione del Nobel per la letteratura, che per la prima volta nella storia è andato a un cantautore del calibro di Dylan. Però, la sera della premiazione, Bob ha mandato Patti Smith al posto suo perché lui doveva vedere una retrospettiva di Truffaut. In latino. All’Accademia di Svezia aspettano ancora Godot.
 
Dunque, caro Babbo, dovresti portare:
Un orgasmo simulato a Lapo Elkann.
Una matita indelebile a Piero Pelù.
Un burro cacao superidratante a Madonna, anche se sfortunatamente ha vinto Trump.
Mille giorni di te e di me, interpretata da Bob Dylan, a Renzi.
Una stanza piena di correntisti di Banca Etruria alla Boschi.
Una tinta per capelli, color Adinolfi, alla Fedeli.
Un grafico sottopagato alla Lorenzin.
Una scenografia per selfie a Virginia Raggi.
E infine, un altro prestigioso premio a Dylan. È trapelata qualche indiscrezione: la Pro Loco di Montopoli di Sabina gli consegnerà l’Olivo D’Oro. Bella, Bob, ce vedemo in piazza, ’n te ’nventa’ scuse!

martedì 29 novembre 2016

A Bob, e cala da ’ssa cerasa



Arrivo tardi – come Trenitalia (ma l’importante è partecipare) – sulla dibattuta questione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan.
Si è tanto detto sulla possibilità della canzone come declinazione del più grande concetto di letteratura e non sarò certo io la baciapile di turno pronta a negare la dignità delle svariate forme espressive della parola.
L’anamnesi della letteratura parla chiaro, e ci dice che siamo partiti dall’ode per arrivare al romanzo odierno, compreso il non-fiction, come piace tanto dire agli americani, passando per il componimento dove il confine tra prosa e poesia diventava labile.
Personalmente, poi, considero alla stregua del romanzo anche il fumetto – un esempio su tutti: Watchmen. (Diverso invece il caso del film che procede per immagini, forma predominante del narrato e non parallela alle parole, come il fumetto.)
Ma più di tutto questo, c’è un sillogismo aristotelico inoppugnabile per cui canzone = poesia, poesia = letteratura, da cui il corollario canzone = letteratura.
Dunque tutto si riduce non al mezzo di declinazione della parola, ma, più che altro, a ciò che si fa con essa. Si può anche parlare della danza di accoppiamento dell’uccello del paradiso. O di una cipolla da regalare per San Valentino (eh sì, guarda tu che te crea Carol Ann Duffy in Valentine).
Piuttosto, quello che mi preme sottolineare è che la canzone gode – ahimè – di un supporto mediatico che la letteratura in forma scritta non vedrà mai. (Per capirci, se Dylan qualcuna che si toglierebbe il reggiseno strappandosi i capelli ancora la trova, confido nel fatto che Philiph Roth non riceverebbe manco un selfie porno da una fan affetta da disturbo della personalità.)
Perché, diciamocela tutta, la massa è avvezza all’arte, sì, ma se è un po’ più prosaica di “Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta” è meglio (poi quel “Pelide” richiede uno sforzo di conoscenza della mitologia greca, un sottofondo non detto, che poi tocca studiare).
Perciò, mi chiedo, per quale recondito motivo insignire del Nobel un cantautore sostenuto da apparati mainstream molto più forti dei canali attraverso i quali si muovono il romanzo, la poesia, il fumetto e compagnia bella? (Certo, poi meglio Dylan che Murakami: ma non diciamo sciocchezze, per favore.)
E, ancora, perché non buttare al secchio la regola secondo cui non si può scegliere un letterato morto? Perché non gli si possono consegnare fisicamente quei novecentomila euro e rotti?! (A questo proposito avrei qualcosina da dire ai tizi dell’accademia svedese a proposito del merito di Wallace, ma pure –per un po’ di sano sciovinismo che non fa mai male – sull’Umberto Eco nazionale, senza poi nemmeno nominare lo straordinario Gadda perché capisco che il mondo non è ancora pronto per la sua “sovrana coscienza dell’impossibilità di dire: Io”.)
Insomma, qualcun altro bravino a cui dare il premio ce l’avevamo, vedi il già citato Philiph Roth o la por’anima de Don DeLillo, che forse la sera della premiazione avrebbero pure rinunciato al campionato di rutto libero come invece Bob sembra non aver la più pallida intenzione di fare.

lunedì 3 ottobre 2016

Kafka sulla spiaggia

Seguirà irriverente stroncatura ad mio completo libitum. Parole forti, eh, preparatevi.

Dopo la coraggiosa (e tediosa, per restare in rima baciata) lettura dei globalmente osannati quanto immeritatamente celebrati Norwegian Wood e L’uccello che girava le viti del mondo, posso dirlo: Haruki Murakami è la più grande bufala della letteratura postmoderna, e Kafka sulla spiaggia ne rappresenta l’emblema.
Il romanzo è ridondante, fitto di discorsi e fatti nonsense, oltre che di personaggi piatti e/o sbiaditi. Come il protagonista, vittima di un destino edipico (idea peraltro vecchia come il cucco – gli psicologi freudiani ancora ce campano sopra) che si suppone debba essere aleatorio ma in cui lui ricade ingiustificatamente, dando il la a una spiegazione forzata sull’incesto materno che glissa invece su quello con la sorella sedicente. Ah, manco a dirlo, si indulge – anche in questo caso ingiustificatamente – in un sesso amorale e ipertrofico.
Se questo non bastasse, abbiamo, signora mia, un’abbacinante descrizione della morte di un mostro à la Blob-il-fluido-che-uccide a 3.99 ché manco su Topolino.
Inoltre, Murakami sceglie di ostentare la sua padronanza della cultura occidentale (pagine e pagine di lezioncina sulla vita di Beethoven, di brani musicali che appartengono alla nostra tradizione, che dunque già conosciamo) piuttosto che celebrare quella della sua origine, che forse avrebbe avuto più appeal su un pubblico come il nostro (guarda tu Yasunari Kawabata, che personalmente non amo, ma ha preso il Nobel per la letteratura, proprio coglione non sarà).
Insomma, Kafka sulla spiaggia è l’ennesimo romanzo di formazione (quindi: che palle!), che si discosta un poco dai suoi predecessori poiché ha una sovrastruttura che unisce (ma secondo me sarebbe più corretto dire rabbercia) figure (gatto, pietra) e funzioni archetipiche (foresta), simbolismo e miti occidentali, in un viluppo in cui onestamente mancano solo i liocorni (o le anatre di Holden).
Una scrittura desolante, una vuotezza formale intollerabile per uno scrittore di cotanta (avvilente) popolarità, una sottomedietà stilistica di cui i dialoghi, insinceri e inattendibili, rappresentano l’apoteosi – vedi quelli con il Ragazzo chiamato Corvo, il quale già nel nome riassume la cacofonia di cui farà parte.
L’insignificanza che pretende di essere prosa.
Ma davero davero?

A proposito: Haruki Murakami, non Murakami Haruki, ché noi siamo italiani, e ’sto carabinierescamente prima-cognome-poi-nome No, No, grazie.

martedì 9 agosto 2016

American Psycho




«Chiunque giudichi Foster Wallace un genio letterario dovrebbe essere incluso nel Pantheon degli imbecilli». Questo scrisse Bret Easton Ellis del Più Grande Scrittore Di Tutti I Tempi*.
Sapevo di questa infelice uscita, ma l’ho ignorata fino a quando, punta sul vivo, ho deciso di leggere il sedicente capolavoro di Ellis, American Psycho. Perché per combattere il male bisogna conoscerlo.
Passo dunque a analizzare la serie di errori clamorosi dell’amato Bret.
Spoiler follows, come scriveva Aaron Swartz sul suo blog, frase che adotterò d’ora in poi, ché mi caratterizza molto.
Innanzi tutto, fino a un terzo del libro ci sono solo sminchionate varie sul benessere finanziario dei personaggi, descrizioni prolisse del loro abbigliamento firmato – simbolo dunque di una dipendenza tossica dai brand –, degli esosi pranzi nei ristoranti à la page (come ripete Ellis in un mantra snervante), delle sortite in palestra per mantenersi belli belli belli in modo assurdo.
Suppongo tutto questo sia una critica costruttiva** al consumismo americano, concetto che Wallace aveva già espresso (molto meglio, s’intende) in Infinite Jest descrivendo non già banalmente facoltosi ragazzotti che possono comprare tutto, bensì una società dove l’acquisto indiscriminato di beni (inutili, ma indispensabili grazie al lavaggio del cervello della pubblicità) è arrivato al parossismo e le multinazionali sono in grado di comprare anche il tempo (ma non divago, ho già detto tutto qui).
Dopo questo martirio e una serie quasi infinita di parole e concetti espressi fino alla nausea, capiamo finalmente che tutto ciò è servito a dire che il protagonista è sì ricchissimo, bellissimo e superficialissimo (tutti superlativi), ma è pure un serial killer (e qui va citato l’unico merito del romanzo, insieme forse ai capitoli dedicati agli album musicali, ossia l’ironizzare sulle psicosi del personaggio, esplicitamente affermante le sue efferatezze durante telefonate amicali, ordinazioni di piatti succulenti eccetera).
Ora, Bret, vorrei spiegarti un concetto molto banale, ma efficace, a mio parere. La letteratura è quella cosa che ti permette di scrivere un libro anche non dicendo tutto tutto tutto. Quando scrivi un dialogo, non lo scrivi mica come avverrebbe in realtà, dicendo tutto tutto tutto, tipo buongiorno-come-stai?, bene-grazie-e-tu? Passi subito al dunque. Perché sennò il lettore si stressa e poi dice che il tuo non è un romanzo cult come hai fatto credere a tutti non si sa bene come, ma solo un noioso libercolo con manie di onnipotenza, specie poi se ti permetti di criticare autori più bravi di te. Ci aizzi, a noi lettori-di-autori-più-bravi-di-te, capisci?!
Così, Bret, era molto meglio se avessi evitato le centinaia e centinaia di pagine di descrizioni griffate per farci entrare nella psicologia del personaggio. L’avevamo capito anche alla ventesima, di pagina.
Dunque, Bret, io volevo dirti che sono contenta di stare nel Pantheon degli imbecilli, perché è molto più à la page del tuo inferno di stronzate.


* Omaggio personale a DFW, manco tanto originale, a dire la verità.
** Sia chiaro che lo dico in senso del tutto ironico e anche un po’ presaperculescamente.
 
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